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La sospensione della cartella di pagamento Equitalia PDF Stampa E-mail
Consulenza Legale
mercoledì 15 giugno 2016

La sospensione della cartella di pagamento Equitalia

La sospensione della cartella di pagamento presentata al giudice, all’ente creditore e a Equitalia: gli effetti e le conseguenze per il contribuente.

 

La sospensione della cartella di pagamento implica che la stessa non può più dar vita ad azioni esecutive (ossia il pignoramento) né ad azioni cautelari (fermo auto o ipoteca) finché dura la sospensione stessa.

Le ragioni per cui può essere chiesta la sospensione dipendono esclusivamente dalla palese illegittimità della cartella. Non è possibile chiedere la sospensione per incapacità economica del debitore, oppure per altre cause come inabilità al lavoro, invalidità, intervenuta disoccupazione, sfratto, ecc.

La sospensione può essere di due tipi:

·         quella richiesta in via amministrativa a Equitalia o all’ente titolare del credito (ad esempio, l’Agenzia delle Entrate, l’Inps, ecc.)

·         quella richiesta in via giudiziaria, ossia al giudice presso il quale è stata instaurata una causa di opposizione alla cartella o al pignoramento in corso.

Alla luce di quanto appena detto, il contribuente deve scegliere quale forma di istanza presentare a seconda della fase del procedimento tenendo conto che può presentare istanza:

– al giudice quando ha impugnato la cartella di pagamento o il pignoramento in corso;

– all’Ufficio che ha emesso l’atto in relazione ad un atto impugnato;

– a Equitalia solo in determinati casi previsti dalla legge quali ad esempio l’intervenuta prescrizione del credito o l’intervenuto annullamento dell’atto impositivo (v. dopo).

 

La richiesta di sospensione della cartella al giudice

Il giudice competente per le impugnazioni delle cartelle di pagamento è:

·         il giudice di pace per le cartelle che derivano da multe (entro 30 giorni dalla notifica)

·         il tribunale ordinario per le cartelle che derivano da debiti con l’Inps o l’Inail (entro 40 giorni dalla notifica)

·         la Commissione Tributaria Provinciale per tutti gli altri casi e, in particolare, per i debiti derivanti da tributi non riscossi (entro 60 giorni dalla notifica).

Attenzione: la richiesta di sospensione presentata in via amministrativa non paralizza i termini per presentare il ricorso al giudice. Sicché, se Equitalia o l’ente titolare del credito non si è espresso in prossimità della scadenza dei termini per il ricorso giudiziale è sempre meglio procedere anche, in via cautelativa, con questa seconda via.

 

Istanza di sospensione della cartella al giudice

L’impugnazione della cartella di pagamento non comporta la sua automatica sospensione. Pertanto Equitalia, nonostante il giudizio in corso, potrebbe comunque avviare il pignoramento. Per evitare ciò si può presentare un’istanza al giudice, che va depositata insieme al ricorso, in cui si chiede la sospensione dell’atto impugnato (la cartella o il pignoramento di Equitalia).

Il giudice ammette la sospensione della cartella solo se:

·         le ragioni del contribuente appaiono fondate già sulla base della documentazione prodotta (si tratta della cosiddetta fondatezza del ricorso, anche se valutata – in questa fase – solo in modo sommario);

·         l’esecuzione della cartella può comportare per il contribuente un danno grave e irreparabile.

Presentata l’istanza, si instaura, nell’ambito del processo avente ad oggetto l’impugnazione dell’atto, un procedimento nel procedimento, volto ad esaminare la sola richiesta di sospensione e che si conclude con un’ordinanza che può rigettare o concedere (in questo caso con effetti limitati nel tempo) la sospensione.

L’istanza di sospensione può essere presentata solo nel primo grado di giudizio, con la conseguente impossibilità di ottenere una tutela di questo genere dopo l’emissione della sentenza.

 

Il pericolo di un danno grave e irreparabile

Presupposto per la concessione della sospensione è che dall’esecuzione dell’atto impugnato possa derivare un danno grave alla sfera patrimoniale del ricorrente, non più rimediabile neppure dopo l’eventuale sentenza del giudizio di merito ad esso favorevole.

La sussistenza di tale pericolo deve essere valutata: in primo luogo in relazione alla natura esecutiva o meno dell’atto impugnato e, successivamente, in relazione alla situazione del ricorrente.

In proposito, la giurisprudenza ha ritenuto sussistente il pericolo di danno grave ed irreparabile quando:

– l’esecuzione dell’atto impugnato mette a repentaglio diritti primari della parte e non è verosimilmente più eliminabile in futuro nel caso in cui il giudizio si concluda in senso favorevole all’impugnante. In particolare esso sussiste solo se l’esecuzione dell’atto determina una vera e propria situazione di insolvenza da rendere indispensabile il ricorso a procedure liquidatorie, in seguito non più agevolmente revocabili o – comunque – da imporre l’adozione di comportamenti e misure destinati pur sempre a lasciare segni irreversibili [1];

– c’è il pericolo di dover ricorrere all’improvviso smobilizzo di beni patrimoniali senza la possibilità di fissare condizioni di vendita adeguate e di individuare idonea controparte [2];

– l’eccessiva esposizione bancaria di un’impresa non consente di far fronte al pagamento di quanto dovuto, con conseguente rischio di pignoramento ed asportazione dei beni aziendali strumentali all’attività aziendale stessa, con ripercussioni gravissime sulla situazione occupazionale dei dipendenti [3];

– la modestia della materia del contendere rende sproporzionata la somma iscritta a ruolo e l’entità del patrimonio immobiliare dei soci della società interessata offre adeguate garanzie di solvibilità finale [4];

– l’importo in contestazione è molto elevato e i tempi per l’eventuale rimborso sono molto lunghi [5];

– l’importo oggetto dell’accertamento è molto elevato, in ragione della natura dell’attività esercitata dalla società [6];

– sono in corso gli atti esecutivi in pendenza di procedura di fallimento per il ricorrente [7].

– risulta provata in atti una forte esposizione debitoria nei confronti del sistema bancario, che impedisce all’istante, considerato l’ammontare e la tipologia delle attività esistenti in bilancio, di attingere ulteriormente allo stesso per pagare il ruolo, costringendolo, in alternativa, allo smobilizzo di proprietà immobiliari non esitabili nel breve termine, se non a prezzo di rilevanti svalutazioni rispetto al valore di mercato [8];

– l’importo contestato è elevato ed è stato già certamente incassato dall’Amministrazione, in quanto relativo a redditi dichiarati in un altro anno [9].

 

Istanza di sospensione della cartella a Equitalia

Il debitore può chiedere l’immediata sospensione della cartella di pagamento (e, quindi, dell’esecuzione forzata) presentando (tramite raccomandata, fax o anche in via telematica) a Equitalia, una dichiarazione e la relativa documentazione attestante che:

 

1.      il diritto di credito azionato è interessato da prescrizione o decadenza intervenuta in data antecedente a quella in cui il ruolo è reso esecutivo;

2.      l’ente creditore ha emesso un provvedimento di sgravio del credito;

3.      l’ente creditore ha concesso la sospensione amministrativa;

4.      il credito è stato in tutto o in parte annullato o sospeso in un giudizio al quale l’AdR non ha preso parte;

5.      in data antecedente alla formazione del ruolo, è stato effettuato un pagamento in favore dell’ente creditore riconducibile al ruolo in oggetto.

Il modello di istanza di sospensione (in cui sono indicati anche i documenti da allegare) è reperibile sul sito internet www.gruppoequitalia.it.

L’istanza deve essere motivata: deve, cioè, documentare che gli atti emessi dall’ente creditore prima della formazione del ruolo, oppure che la successiva cartella di pagamento o l’avviso per i quali si procede, sono stati interessati da prescrizione o decadenza del diritto di credito sotteso, intervenuta in data antecedente a quella in cui il ruolo è reso esecutivo, da un provvedimento di sgravio emesso dall’ente creditore, da una sospensione amministrativa comunque concessa dall’ente creditore, da una sospensione giudiziale, oppure da una sentenza che abbia annullato in tutto o in parte la pretesa dell’ente creditore, emesse in un giudizio al quale il concessionario per la riscossione non ha preso parte, da un pagamento effettuato, riconducibile al ruolo in questione, in data antecedente alla formazione del ruolo stesso, in favore dell’ente creditore.

L’istanza va presentata entro 60 giorni dalla notifica, da parte dell’Agenzia delle Entrate del primo atto di riscossione utile (cartella di pagamento o comunicazione di presa in carico delle somme dell’accertamento esecutivo) o di un atto cautelare (es. preavviso di fermo o di iscrizione di ipoteca) o esecutivo (es. pignoramento).

Equitalia, entro 10 giorni dal ricevimento, trasmette all’ente creditore la dichiarazione presentata dal debitore e la documentazione allegata; decorsi altri 60 giorni, l’ente creditore, in caso di correttezza della documentazione prodotta, trasmette in via telematica, a Equitalia, il conseguente provvedimento di sospensione o sgravio e, al contribuente, a mezzo raccomandata con ricevuta di ritorno o a mezzo PEC se il destinatario ha l’obbligo di attivarla, la comunicazione della correttezza della documentazione prodotta.

In caso contrario, comunica l’inidoneità della documentazione prodotta per la ripresa della riscossione.

Se l’ente creditore non invia la comunicazione di correttezza o inidoneità al contribuente e non trasmette i conseguenti flussi informatici a Equitalia entro il termine di 220 giorni dalla data di presentazione della dichiarazione del debitore a Equitalia, i crediti in oggetto sono annullati di diritto.

Durante questa fase, i termini di prescrizione non vengono interrotti e continuano a decorrere.

 

[1] CTP Milano ord. del 29.10.1996.

[2] CTP Modena ord. n. 216/1999.

[3] CTP Latina ord.. del 8.05.1996.

[4] CTP Genova ord. del 30/07/1996.

[5] CTP Parma ord. n. 732/1996.

[6] CTP Salerno sent. n. 9/1996.

[7] CTP Reggio Emilia sent. n. 783/1996.

[8] CTP Reggio Emilia sent. n. 7/1998, CTP Firenze sent. n. 1/1997.

[9] CTP Venezia sent. n. 43/1997.

 

 

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Cosa è il termine essenziale? PDF Stampa E-mail
Consulenza Legale
martedì 14 giugno 2016


Inadempimento contrattuale e termine essenziale: la clausola con cui viene stabilito il termine ultimo entro cui adempiere oltre il quale il contratto si considera risolto.

 

Un strumento posto a tutela delle parti obbligate è il cd. termine essenziale, decorso il quale, in caso di inadempimento, il contratto si considera risolto.

Se il termine fissato per la prestazione di una delle parti deve considerarsi essenziale, ai sensi dell’art. 1457 c.c., nell’interesse dell’altra, questa, salvo patto o uso contrario, se vuole esigerne l’esecuzione nonostante la scadenza del termine, deve darne notizia all’altra parte entro tre giorni. In mancanza, il contratto s’intende risolto di diritto anche se non è stata espressamente pattuita la risoluzione.

Non è sufficiente che nel contratto sia stabilito un termine per adempiere, ma deve essere espressamente indicata la sua essenzialità. In mancanza, ove dalla lettera del contratto il termine risultasse puramente indicativo, non si potrebbero rinvenire gli estremi dell’essenzialità, con conseguente impossibilità di rientrare nell’ambito di operatività della norma in esame. Infatti, la Cassazione ha affermato che “il carattere essenziale del termine non può desumersi dalla mera locuzione di stile “entro e non oltre” che lo abbia accompagnato, in quanto tale indicazione vale di per sé soltanto a fissare una data e non è significativa della improrogabilità di detto termine che va accertata, invece, anche alla stregua di specifiche ed inequivoche espressioni dell’oggetto del contratto, la cui utilità economica perseguita dalle parti andrebbe perduta a causa dell’inutile decorso del termine pattuito” (Cass., 18 giugno 1999, n. 6086).

 

Quindi secondo: Cass., 29 agosto 1997, n. 8233

Il termine si deve ritenere essenziale “quando la sua improrogabilità risulti dalle espressioni adoperate dai contraenti, anche senza l’uso di formule sacramentali, ovvero dalla natura e dall’oggetto del contratto, la cui utilità economica andrebbe perduta per effetto dell’inutile decorso del termine pattuito”.

La natura non essenziale del termine di adempimento stabilito dalle parti impedisce la configurabilità della risoluzione di diritto del contratto, ma non esclude che l’inosservanza del termine previsto dalle parti, laddove superi ogni ragionevole limite di tolleranza (valutazione che sarà poi effettuata dal giudice di merito) in relazione all’oggetto del contratto e alla natura del medesimo, possa costituire di per sé un inadempimento tale da determinare la risoluzione del contratto per inadempimento secondo le norme generali.

Occorre precisare che nulla vieta, come detto sopra, che il creditore, nell’ambito delle facoltà connesse all’esercizio dell’autonomia privata, possa accettare l’adempimento tardivo della prestazione, successivo alla risoluzione di diritto del contratto per mancato adempimento entro il termine essenziale, rinunciando agli effetti della stessa, ritenendo più conforme ai propri interessi l’esecuzione del contratto che non la risoluzione di diritto del medesimo (Cass., 28 giugno 2004, n. 11967 e Cass., 3 luglio 2000, n. 8881).

 

IN PRATICA

All’interno del contratto può essere inserito un termine essenziale per l’adempimento; nel caso in cui tale termine decorra senza che venga eseguita la prestazione, il contratto si risolve di diritto, ossia in maniera automatica. Tuttavia, se la parte vuole che la prestazione venga comunque eseguita, nonostante sia sopravvenuta la scadenza del termine, può farne richiesta entro tre giorni dalla suddetta scadenza.

 

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Cosa è la clausola risolutiva espressa? PDF Stampa E-mail
Consulenza Legale
martedì 14 giugno 2016


Tra le diverse opzioni di risoluzione di diritto del contratto predisposte dal legislatore a tutela dei contraenti, viene in considerazione la clausola risolutiva espressa, disciplinata dall’art. 1456 c.c.

 

Un altro caso di risoluzione di diritto del contratto è quello della clausola risolutiva espressa, ai sensi dell’art. 1456 c.c.

I contraenti possono convenire espressamente che il contratto dovrà intendersi automaticamente risolto nel caso in cui una determinata obbligazione (o più obbligazioni, purché specificate) non sia adempiuta del tutto ovvero non sia adempiuta secondo le modalità concordate. Infatti, “la clausola risolutiva non prescinde dall’inadempimento ma lo presuppone, rendendo automatica la risoluzione del contratto senza necessità di indagare sull’importanza e gravità dell’inadempimento stesso, occorrendo, ai fini della risoluzione, soltanto che questo sia imputabile alla controparte” (Cass., 19 novembre 2004, n. 21886).

Perché la risoluzione si verifichi occorre che la parte interessata dichiari all’altra che intende avvalersi della clausola risolutiva. La comunicazione è di tipo recettizio: pertanto, produce effetti soltanto quando sia pervenuta all’inadempiente.

Nel caso in cui la parte interessata rinunci, sia pur implicitamente, alla possibilità di avvalersi di tale clausola, una successiva dichiarazione di avvalersi della clausola risolutiva espressa, in relazione a quello stesso inadempimento, non ha più alcuna rilevanza (Cass., 22 ottobre 2004, n. 20595).

È evidente l’importanza pratica che riveste l’inserimento di una clausola siffatta in un contratto: la parte che subisce l’inadempimento potrà, infatti, determinare la risoluzione del contratto con una semplice raccomandata, anziché dover instaurare a tal fine un giudizio, che sarebbe comunque gravoso in termini di tempi e costi.

La stipulazione di una clausola risolutiva espressa non significa, peraltro, che il contratto possa essere risolto solo nei casi espressamente previsti dalle parti, rimanendo fermo il principio per cui ogni inadempimento di non scarsa rilevanza può giustificare la risoluzione del contratto, con l’unica differenza che, per i casi già previsti dalle parti nella clausola risolutiva espressa, la gravità dell’inadempimento non deve essere valutata dal giudice (Cass., 16 maggio 1997, n. 4369.).

Peraltro, la risoluzione di diritto del contratto conseguente all’applicazione di una clausola risolutiva espressa postula l’imputabilità dell’inadempimento. La pattuizione di tale modalità di scioglimento dal contratto, pur eliminando ogni necessità di indagine in ordine all’importanza dell’inadempimento, non configura comunque un’ipotesi di responsabilità senza colpa per cui, se difetta il requisito della colpevolezza dell’inadempimento, la risoluzione non si verifica (Cass., 14 luglio 2000, n. 9356).

Occorre precisare che, pur producendo, come detto, la clausola risolutiva l’automatica risoluzione del contratto, non si può escludere che sia successivamente necessario l’intervento del giudice, soprattutto in caso di adempimento parziale. In tal caso la sentenza non sarà però costitutiva, bensì dichiarativa di una risoluzione già avvenuta (Cass., 12 dicembre 2003, n. 19051).

 

IN PRATICA

Il contratto può contenere una specifica clausola — la cd. clausola risolutiva espressa — in base alla quale l’accordo deve ritenersi risolto di diritto se una o più obbligazioni non vengano adempiute in modo completo o secondo le modalità concordate. Verificatosi l’inadempimento, la parte che ha interesse a risolvere il contratto deve dichiarare espressamente di volersi avvalere della clausola risolutiva.

 

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Cosa è l’eccezione di inadempimento? PDF Stampa E-mail
Consulenza Legale
martedì 14 giugno 2016


Tra le forme di tutela proposte dal legislatore a favore dei contraenti viene presa in considerazione l’eccezione di inadempimento, disciplinata dall’art. 1460 c.c., che viene in considerazione nei contratti a prestazioni corrispettive.

 

La cosiddetta eccezione di inadempimento (art. 1460 c.c.) consente a ciascuno dei contraenti di un contratto a prestazioni corrispettive di rifiutarsi di adempiere la propria obbligazione, se l’altro non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente la propria, salvo che termini diversi per l’adempimento siano stati stabiliti dalle parti o risultino dalla natura del contratto. Tuttavia, non può rifiutarsi l’esecuzione se, avuto riguardo alle circostanze, il rifiuto è contrario alla buona fede.

Tale rimedio si applica anche nel caso in cui la controparte abbia adempiuto in modo inesatto. In altre parole, la norma autorizza il contraente che non ha ricevuto la controprestazione a rifiutarsi di eseguire la propria, purché ciò non risulti contrario a buona fede. L’elemento della buona fede significa che, qualora la prestazione non eseguita dalla controparte risulti essere di scarsa importanza, l’altra parte non può, sulla base di ciò, giustificare il proprio inadempimento.

Con orientamento costante, la Cassazione ha più volte ribadito che “nei contratti con prestazioni corrispettive, qualora una delle parti adduca, a giustificazione del proprio rifiuto di adempiere, l’inadempimento o la mancata offerta di adempimento dell’altra, il giudice deve procedere alla valutazione comparativa dei comportamenti, tenendo conto non solo dell’elemento cronologico, ma anche di quello logico, essendo necessario stabilire se vi sia relazione causale ed adeguatezza, nel senso della proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto, tra l’inadempimento dell’uno e il precedente inadempimento dell’altro.

Peraltro, il rifiuto di adempiere, come reazione al primo inadempimento, oltre a non contrastare con i principi generali della correttezza e della lealtà, deve risultare ragionevole e logico in senso oggettivo, trovando concreta giustificazione nella gravità della prestazione ineseguita, alla quale si correla la prestazione rifiutata” (Cass., 2 aprile 2004, n. 6564).

 

Conforme, Cass., 10 novembre 2003, n. 16822.

“La salvaguardia del nesso sinallagmatico tra prestazioni corrispettive da adempiere simultaneamente, riconosciuto a ciascun contraente dall’art. 1460 c.c. mediante la facoltà di sospendere l’adempimento della propria obbligazione fino a quando l’altra parte non adempia, o non offra di adempiere, la propria, non legittima il rigetto delle domande di adempimento del contratto hic et inde proposte se entrambe le parti sollevano l’eccezione inadimplenti non est adimplendum, dovendo invece il giudice valutare, secondo il principio di buona fede e correttezza, il senso oggettivo, quale tra le due condotte, in relazione non soltanto alla relativa successione temporale, ma anche avuto riguardo all’incidenza sulla funzione economico-sociale del contratto abbia influito sull’equilibrio sinallagmatico dello stesso, in rapporto all’interesse perseguito da ciascuna parte, e perciò abbia legittimato, causalmente e proporzionalmente la sospensione dell’adempimento dell’altra parte.”

 

Cass., 19 agosto 2003, n. 12161

“Nei contratti con prestazioni corrispettive, qualora una delle parti adduca, a giustificazione della propria inadempienza, l’inadempimento o la mancata offerta di adempimento dell’altra, il giudice deve procedere alla valutazione comparativa dei comportamenti, tenendo conto non solo dell’elemento cronologico, ma anche e soprattutto dei rapporti di causalità e proporzionalità esistenti tra le prestazioni inadempiute, della loro incidenza sulla funzione economico-sociale del contratto, dell’equilibrio sinallagmatico del rapporto e degli interessi delle parti; tale valutazione, avendo per oggetto un apprezzamento di fatto, rientra nei poteri del giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivata.”

La norma configura, quindi, un’eccezionale ipotesi di autotutela accordata dall’ordinamento in favore del creditore.

 

IN PRATICA

Nei contratti a prestazioni corrispettive, l’eccezione di inadempimento permette, a ciascuno dei contraenti, di rifiutarsi di eseguire la propria prestazione se l’altra parte non adempie, in tutto o in parte, contemporaneamente.

Si osservi che il legislatore ammette il rifiuto della prestazione solo nel caso in cui ciò non sia contrario a buona fede.

 

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Cosa è la clausola solve et repete? PDF Stampa E-mail
Consulenza Legale
martedì 14 giugno 2016


Il legislatore, all’art. 1462 c.c., ha consentito alle parti contraenti di inserire nel contratto la clausola solve et repete, attraverso la quale perseguire la rapida conclusione del contratto, senza rischi di ritardi o eccezioni strumentali.

 

I contraenti, in fase di stipula del contratto, possono inserire la clausola cd. Solve et repete, la quale comporta che una delle parti non possa proporre alcun genere di eccezioni al fine di evitare o ritardare la propria prestazione (art. 1462 c.c.).

In virtù di detta clausola la parte onerata deve quindi adempiere la propria prestazione, anche se ritiene che la controparte non abbia adempiuto la propria, e soltanto in seguito potrà eventualmente agire in giudizio per far valere le proprie ragione e vedersi restituito, in tutto o in parte, quanto pagato.

Tale clausola, comportando la rinuncia del contraente all’eccezione di inadempimento di cui si è detto sopra, risulta particolarmente gravosa; essa configura infatti una tipica ipotesi di cd. clausola vessatoria, su cui ci soffermeremo tra breve.

Stante la gravosità di detta clausola, la normativa prevede che essa non abbia effetto per le eccezioni di nullità, annullabilità e di rescissione del contratto.

 

IN PRATICA

La clausola solve et repete, seppure decisamente gravosa per l’onerato, è predisposta allo scopo di impedire al contraente di proporre eccezioni in fase di esecuzione del contratto che eludano o ritardino l’adempimento della propria obbligazione. Pertanto la parte gravata da detta clausola non può far altro che eseguire la propria obbligazione, salvo potersi rivalere in un momento successivo, agendo in giudizio a tutela delle proprie ragioni e per la restituzione di quanto dato/corrisposto.

 

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