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Sequestro liberatorio PDF Stampa E-mail
Consulenza Legale
venerdì 10 giugno 2016

Il sequestro cd. liberatorio rientra tra i casi speciali di sequestro. Ciò non toglie che abbia comunque natura cautelare, sebbene sia volto alla liberazione del debitore dal vincolo obbligatorio. Vediamo di capirne di più.

 

Sequestro liberatorio: quando viene disposto?

Il sequestro liberatorio è un’ipotesi particolare di sequestro che il giudice può ordinare, su iniziativa del debitore, sulle cose o sulle somme che quest’ultimo ha offerto o messo a disposizione del creditore per la sua liberazione[1]. Ad esso si ricorre quando è controverso l’obbligo o il modo del pagamento o della consegna o l’idoneità della cosa offerta.

Scopo del sequestro liberatorio, insomma, è quello di evitare al debitore le conseguenze della mora debendi, cioè del ritardo nell’adempimento. Proprio per questo motivo occorre un’iniziativa indispensabile e insostituibile del debitore.

 

Sequestro liberatorio: tipologie

Si distingue tra due diversi tipi di sequestro liberatorio: il primo è quello che il debitore richiede quando vuole adempiere la prestazione ma questa è rifiutata dal creditore.

Il secondo tipo di sequestro liberatorio è quello c.d. “difensivo“, e cioè quello che il debitore richiede quando contesta l’esistenza del debito o le modalità con le quali deve essere eseguita la prestazione.

 

Sequestro liberatorio: presupposti

Conseguenza di quando appena detto, è che il sequestro liberatorio viene utilizzato in presenza di due presupposti:

– una controversia, giudiziale o stragiudiziale, relativa all’esistenza di un debito (somma di denaro o consegna di cose), alla modalità del pagamento o della consegna della cosa, all’idoneità della cosa offerta;

– l’offerta da parte del debitore delle somme o delle cose da lui dovute e il rifiuto da parte del creditore dell’offerta stessa, perché ritenuta insufficiente o perché vi è controversia sull’obbligo o sul modo di pagamento.

 

Sequestro liberatorio: procedura

Il sequestro liberatorio può essere disposto dal giudice su richiesta del debitore anche nel caso in cui questi abbia dubbi sulla individuazione della persona del creditore, ma voglia comunque evitare di subire gli effetti della mora [2]. In tal caso, il debitore, in attesa della decisione del giudice, è tenuto a offrire il pagamento a tutti coloro che ne pretendano l’adempimento. Egli otterrà, poi, il sequestro delle somme offerte ed eseguirà il versamento nelle mani del custode, perché sia costui a consegnare la somma a chi, all’esito dell’accertamento processuale, risulti il titolare del credito.

 

[1] Art. 687 cod. proc. civ.

[2] Cass., sent. n. 19157, dell’11.09.2014.

 

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Pignoramenti: l’assegnazione diretta del bene PDF Stampa E-mail
Consulenza Legale
venerdì 10 giugno 2016

I beni pignorati messi all’asta nella maggior parte dei casi rimangono invenduti; il creditore ha tuttavia un’altra possibilità: chiedere l’assegnazione diretta.

 

Tempi duri per i creditori: recuperare il denaro cui si ha legittimamente diritto diventa sempre più difficile. Il percorso è lungo e, per portarlo a termine, è necessario sostenere delle spese senza avere la certezza di un risultato. Giunti alla fase del pignoramento, soprattutto nei casi di pignoramento mobiliare, è molto difficile che i beni messi all’asta dall’Istituto Vendite Giudiziarie vengano acquistati da qualcuno: questo non solo perché molto spesso si tratta di scarti di magazzino, di merce che nessuno ha mai voluto acquistare o, peggio, di roba usata. Ma anche e soprattutto perché non esiste una pubblicità che informi i cittadini delle date delle aste giudiziarie per la vendita forzata di beni mobili. Così il risultato è che i pignoramenti mobiliari non hanno quasi mai esito positivo e il creditore resta con un pugno di mosche in mano.

Il creditore, però, non deve necessariamente limitarsi ad attendere la vendita del bene pignorato: la legge gli consente di chiedere l’assegnazione diretta dei bei beni pignorati. Il soddisfacimento delle sue pretese, quindi, non avviene tramite il denaro ricavato dalla vendita dei beni pignorati, ma attraverso l’assegnazione dei beni pignorati stessi, dei quali il debitore acquista la proprietà, potendone così disporre a piacimento.

Per fare ciò, è necessario presentare un’istanza al giudice dell’esecuzione con cui si chiede non già il ricavato in denaro della vendita forzata, ma il trasferimento della proprietà del bene stesso. Sarà poi il creditore a decidere se tenere il bene oppure provare a venderlo, con il grande vantaggio di aver in ogni caso ottenuto qualcosa dalla procedura esecutiva.

Quando si chiede l’assegnazione diretta, bisogna però fare attenzione al valore del bene: se il valore del bene è più alto del credito vantato, il debitore è chiamato a versare la differenza. Ad esempio: il creditore ha un credito di 2.000 euro e chiede l’assegnazione diretta di una autovettura del valore di 3.000 euro; in questo caso il creditore deve versare al debitore la differenza, pari a 1.000 euro (cui vengono tuttavia sottratte le spese della procedura e gli interessi).

L’assegnazione diretta può essere richiesta sia su beni mobili (come auto, arredi, apparecchiature, gioielli), che su beni immobili, come appartamenti o terreni. L’importante è che il loro valore risulti da listini ufficiali o, comunque, possa essere determinato da elementi di mercato certi (così un’auto usata per il cui mercato esistono delle quotazioni ufficiali date dai giornali specialistici; ma anche gli oggetti d’oro, ecc.).

 

La procedura

Il creditore può presentare al giudice dell’esecuzione un’istanza di assegnazione diretta dei beni pignorati nel termine di dieci giorni prima della data in cui è fissata la vendita. Tale istanza troverà un effettivo seguito qualora la vendita non vada a buon fine per mancanza di offerte o qualora le offerte presentate siano invalide.

Il creditore, nell’istanza di assegnazione, deve offrire il pagamento di una somma di denaro non inferiore a quella necessaria per le spese di esecuzione e per i crediti aventi diritto di prelazione anteriore a quello dell’offerente ed al prezzo che, per le vendite disposte a partire dal 27 giugno 2015, è quello base stabilito per l’esperimento di vendita per cui è presentata.

 

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Ultimo aggiornamento ( domenica 12 giugno 2016 )
 
Mancato pagamento rata del mutuo: cosa si rischia PDF Stampa E-mail
Mediazione Creditizia
giovedì 09 giugno 2016

A causa della crisi, molte famiglie faticano a rispettare l’impegno preso con la banca. Con conseguenze pesanti: dagli interessi di mora al pignoramento della casa.

 

La crisi non perdona. E la banca nemmeno. Chi si è spinto ad accendere un mutuo per l’acquisto della prima casa lo ha fatto in un momento in cui, conti alla mano, sapeva di poter fare fronte alle rate del prestito ricevuto. Ma le difficoltà del mercato del lavoro o qualche semplice imprevisto possono minare questa sicurezza. Il risultato: a fine mese, i soldi per pagare la rata del mutuo non ci sono. Certo, qualche volta è possibile saldare la scadenza con qualche giorno di ritardo. Ma senza esagerare: le conseguenze possono essere pesanti.

 

Pagamento della rata del mutuo: quando scatta il ritardo

Due o tre giorni di ritardo non sono, di solito, un problema. Il cosiddetto “ritardato pagamento” scatta dopo il 30° giorno dalla scadenza della rata. In sostanza, quando si “salta” almeno un mese. Dopo 180 giorni di mora, il problema diventa ancora più serio: la banca può decidere la risoluzione del contratto.

 

Cosa si rischia in caso di mancato pagamento della rate del mutuo

Il cliente che ritarda o non paga fino a sei rate del mutuo può essere dichiarato moroso e, quindi, dovrà pagare i relativi interessi di mora sulle mensilità mancanti. Il tasso viene stabilito in misura più alta rispetto a quello pattuito per le rate del mutuo. Attenzione, però, alle percentuali che vengono applicate.

Per calcolare gli interessi di mora si utilizza una formula standard:

giorni di ritardo x rata x tasso di mora

La maggiorazione applicata varia normalmente tra l’1% ed il 4%, a seconda del piano di ammortamento e della tipologia delle rate: se sono costanti, crescenti o decrescenti, mensili, trimestrali o semestrali.

Il tasso di interesse sulle rate scadute è fissato nel 2016 all’8%, a cui vanno sommate le spese della messa in mora (commissione di insoluto, lettera di sollecito, spese di recupero del debito).

Il problema diventa più serio quando il mancato pagamento supera i 180 giorni dall’ultima rata rispettata. Se il ritardo si verifica per almeno sette volte, anche non consecutive, la banca può risolvere il contratto con il cliente moroso, pretendere il pagamento immediato di quanto dovuto ed esercitare di diritto l’ipoteca sulla casa posta a garanzia.

 

Cosa si può fare

Se il timore di trovarsi di fronte ad una situazione di difficoltà economica diventa piano piano una certezza, prima di diventare di fatto morosi è possibile rinegoziare il mutuo con la banca. Possibilmente con in mano un’offerta più vantaggiosa di un altro istituto di credito, per far capire quanto si potrebbe risparmiare altrove. La rinegoziazione modifica gli indici costitutivi del contratto: il tasso (variabile o fisso), lo spread, la durata. Se il risultato non fosse soddisfacente, è possibile chiudere il contratto ed aprirlo in un altro istituto (portabilità del mutuo). La vecchia banca è tenuta ad accettare la decisione del cliente. Queste operazioni non possono comportare dei costi aggiuntivi.

Oggi, comunque, molti istituti di credito propongono, al momento dell’accensione del mutuo, delle polizze assicurative che garantiscono il pagamento di un certo numero di rate in caso di difficoltà. Polizze che la banca può, appunto, proporre ma mai imporre, come stabilito dall’IVASS, l’Istituto di Vigilanza sulle Assicurazioni, in un documento firmato insieme alla Banca d’Italia.

 

 

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Cartella Equitalia per multe: ricorso entro 30 giorni, non 60 PDF Stampa E-mail
Consulenza Legale
giovedì 09 giugno 2016

Il termine per impugnare la cartella di pagamento di Equitalia notificata per una multa, conseguente a una contravvenzione per violazione del codice della strada, è ridotto alla metà rispetto all’ordinario termine per le altre cartelle.

 

Attenzione a non cadere in facili equivoci: contro le cartelle di Equitalia notificate a seguito di multe stradali non pagate, il termine per fare ricorso al giudice di Pace è di 30 giorni e non di 60, come invece per tutte le altre cartelle attinenti a imposte e sanzioni. Con la conseguenza che, se l’automobilista non rispetta questa scadenza, la cartella si “consolida”, diventa definitiva, non più impugnabile; sulla base di essa, quindi (che, in termini tecnici, si considera titolo esecutivo) Equitalia è legittimata ad avviare le misure esecutive e cautelari contro il proprietario del mezzo come il fermo auto o il pignoramento. È quanto chiarito dal Giudice di Pace di Catania con una recente sentenza [1].

 

Se la multa non viene pagata

Se la contravvenzione per violazione del codice della strada non viene pagata entro 60 giorni o non viene proposto ricorso (al giudice di pace entro 30 giorni; al prefetto entro 60 giorni), l’importo viene iscritto a ruolo e la multa non è più impugnabile. Diventa cioè “definitiva”.

Da ciò deriva, peraltro – secondo la sentenza in commento – l’applicazione di una ulteriore multa: la maggiorazione di un decimo per ogni semestre di ritardo nel pagamento (da calcolarsi a partire dal giorno in cui è dovuto il pagamento della multa fino alla notifica della cartella di pagamento). Si tratta di una sanzione aggiuntiva per ritardato pagamento prevista dal codice della strada, unicamente addebitata alla condotta del contravventore, tenuto al puntuale adempimento dell’obbligazione.

 

Le opposizioni contro la cartella di Equitalia per multe

Un comunissimo errore che porta spesso gli automobilisti a vedersi rigettate le opposizioni contro le cartelle di Equitalia contenenti richieste di pagamento per multe stradali è quello di ritenere che il termine per sollevare l’opposizione al giudice di Pace sia di 60 giorni, così come per gran parte di tutte le altre cartelle esattoriali. Non è così. La deadline per impugnare la cartella per contravvenzioni stradali è di soli 30 giorni. A pena di inammissibilità del ricorso per scadenza dei termini.

Un secondo errore che comunemente si compie è quello di riservare, contro la cartella di Equitalia contenente multe stradali, le stesse eccezioni che si sarebbero dovute invece sollevare contro l’originario verbale. In verità, come abbiamo spiegato nella guida “Come si contesta una cartella di pagamento”, l’impugnazione della cartella esattoriale può contenere solo contestazioni relative a vizi propri della cartella stessa e non dell’atto a monte che ha determinato l’iscrizione a ruolo della somma (la multa, un accertamento fiscale, il mancato pagamento del bollo auto, ecc.).

Un esempio servirà a chiarirci meglio. Se il destinatario della cartella asserisce di non essere lui il proprietario del mezzo multato, ma una società di cui non fa più parte, non potrà più opporsi alla cartella poiché tale eccezione andava sollevata contro la multa iniziale. Il far scadere i termini per l’opposizione al verbale (anche in questo caso di 30 giorni) comporta l’impossibilità di sollevare tutte le eccezioni sul “merito” della sanzione.

Al contrario, è possibile contestare la cartella per errori nella compilazione della stessa (ad esempio, mancata indicazione della data di notifica della multa, erronea determinazione degli interessi legali, assenza del nome e cognome del responsabile del procedimento, ecc.). Anche in questo caso si rinvia alla nostra guida per conoscere tutte le eccezioni sollevabili contro la cartella di Equitalia.

 

Non si può opporre opposizione al successivo pignoramento

Il terzo e comune errore compiuto spesso dagli automobilisti è quello di risvegliarsi solo al momento del pignoramento, avendo lasciato “marcire” per lungo tempo le cartelle di pagamento dentro il cassetto. Anche questo comportamento pone dinanzi l’ineluttabile constatazione di aver perso il treno del ricorso: ricorso che, come detto, può essere sollevato solo entro 30 giorni dalla notifica della cartella di pagamento. Pertanto, l’opposizione all’esecuzione forzata verrà rigettata, salvo si fondi su fatti successivi alla notifica della cartella (ad esempio, la prescrizione del diritto alla riscossione – prescrizione che è di cinque anni – oppure la mancata notifica della cartella di pagamento).

 

IN PRATICA

La cartella di pagamento può essere opposta solo entro 30 giorni dalla notifica. Le uniche eccezioni che si possono sollevare sono per vizi propri della cartella e non per questioni attinenti al merito della sanzione.

[1] G.d.P. Catania, sent. n. 336/2016.

 

 

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Piano del consumatore anche per debiti in parte imprenditoriali PDF Stampa E-mail
Consulenza Legale
giovedì 09 giugno 2016

Crisi da sovraindebitamento: consentito il ricorso alla legge salvasuicidi nella forma del piano del consumatore, senza il voto favorevole dei creditori, se sono presenti in parte debiti da attività d’impresa come quelli per cartelle di Equitalia.

 

Sovraindebitamento: si può ricorrere al piano del consumatore anche se, nella massa dei debiti di cui viene richiesto il taglio al tribunale, sono presenti – in minima parte – importi derivanti da attività imprenditoriale. È quanto chiarito da un interessante decreto di omologa del Tribunale di Paola [1]. Con la conseguenza che chi si porta dietro, da precedenti trascorsi commerciali e/o d’impresa, debiti ad esempio con Equitalia o l’Inps, può contare sul taglio degli importi, ricorrendo semplicemente al giudice, senza bisogno di dover ottenere il consenso dei creditori. Ma procediamo con ordine.

 

La vicenda

Ha la meglio un ex imprenditore, che aveva contratto una serie di debiti, a titolo personale, in un periodo in cui il reddito familiare era di importo tale da far presumere di poterli onorare. In verità l’uomo, sul quale pendevano ancora degli scoperti derivanti dalla precedente attività di commercio per articoli di abbigliamento, in presenza del suddetto sovraindebitamento, aveva avanzato al tribunale una richiesta di omologa del piano del consumatore.

 

Il piano del consumatore

Come noto la legge sul sovraindebitamento prevede tre soluzioni per salvare il cittadino dai debiti:

·         l’accordo coi creditori che richiede il voto favorevole del 60% di questi ultimi;

·         il piano del consumatore che, invece, non richiede il consenso dei creditori e la proposta viene semplicemente valutata, in base alla sua meritevolezza dal giudice. È quest’ultimo, quindi, che decide se approvare o meno il taglio dei debiti;

·         la liquidazione dei beni del debitore con ripartizione del ricavato ai creditori.

La giurisprudenza aveva precisato, non molto tempo fa, che la più facile procedura del piano del consumatore è possibile solo quando i debiti riguardano, appunto, il consumatore. Mentre, in presenza di morosità per attività imprenditoriale, si deve far ricorso alla diversa procedura dell’accordo coi creditori.

Ebbene, la particolarità della procedura omologata a Paola lo scorso 12 maggio consiste nel fatto che sia stato omologato un piano del consumatore (quindi senza la votazione del 60% dei creditori) in presenza di crediti di natura mista (ossia tanto di natura imprenditoriale che non) per i quali invece sarebbe previsto soltanto l’accordo. Il tutto in linea con l’interpretazione della Cassazione.

La Corte Suprema [2] ha ritenuto, infatti, di dovere aderire ad una lettura più ampia di “consumatore” ritenendo tale anche chi sia stato imprenditore o professionista e non lo sia più (come nella fattispecie in esame) oppure chi lo sia tuttora e non abbia debiti di tale natura.

La stessa Corte ha precisato anche che bisogna avere riguardo “alla qualità dei debiti da ristrutturare che la connotano, in sé considerati e nella loro composizione finale”.

Tale principio risulta condivisibile proprio per evitare una evidente violazione dei principi di ragionevolezza costituzionalmente garantiti.

Con questo piano si crea un precedente storico, anche chi ha debiti misti può proporre il piano e non necessariamente l’accordo se questi sono irrilevanti: infatti, ad esempio, sarebbe assurdo che su una massa debitoria di 300.000,00 euro possano incidere 400,00 euro derivanti da iva o 4.000,00 euro derivanti da Inps.

 

La particolarità del caso

Grazie a questa sentenza, l’ex imprenditore che ha accumulato debiti per la precedente attività commerciale, come ad esempio quelli per cartelle di pagamento di Equitalia o con l’Inps, può inserire questi ultimi in un unico calderone, insieme a quelli contratti in qualità di consumatore, e chiedere al giudice la defalcazione. Nonostante la legge[3] definisca consumatore come il debitore, persona fisica, che ha assunto obbligazioni esclusivamente per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta in passato, oggi si ritiene che i debiti verso Equitalia siano irrilevanti ai fini della proposta del piano del consumatore, avanzata da quest’ultimo.

Quindi si può accogliere la richiesta del piano del consumatore se i debiti del ricorrente sono di natura “mista”, ossia non sono parzialmente estranei all’attività imprenditoriale come quelli nei confronti di Equitalia.

 

[1] Trib. Paola, dott.ssa Marta Sodano, decr. del 12.05.2016, R.G. n. 341/2015.

[2] Cass. sent. n. 1869/2016.

[3] Art. 6 co. 2, lett. b) L. 3/2012.

 

 

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