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È legale emettere assegni postdatati? PDF Stampa E-mail
Consulenza Legale
domenica 24 luglio 2016

Tutti gli aspetti connessi all’emissione di un assegno postdatato: reato e multe, mancato pagamento dell’assegno per insufficienza di fondi sul conto corrente, nullità del patto con il creditore.

Emettere assegni postadatati è legale da un punto di vista penale e amministrativo, ma costituisce un illecito dal punto di vista tributario e, sotto il profilo civilistico, il patto di postdatazione è nullo, con la conseguenza il prenditore (il creditore, cioè, che è in possesso dell’assegno) può portare l’assegno in banca per l’incasso in qualsiasi momento, anche prima della scadenza della data ivi riportata. Ma procediamo con ordine e cerchiamo di capire tutti i risvolti relativi al quesito di questo articolo: è legale emettere assegni postdatati?

È reato emettere assegni postdatati?

La risposta a questa domanda è facile e diretta: non si commette alcun reato nell’emettere un assegno postdatato.

L’unica ipotesi che potrebbe configurare un illecito penale, a detta di alcuni giudici, è quando il debitore, nel consegnare il titolo, fa credere – con artifici e raggiri – al creditore che il conto è coperto o che, per quella data, lo sarà. Fingere in malafede una situazione non vera, facendo ritenere al possessore dell’assegno che il titolo verrà onorato alla scadenza, integra il reato di insolvenza fraudolenta. Quello che, però, è richiesto al debitore per essere punito penalmente non è una semplice condotta passiva o silenziosa, ma una dichiarazione espressa o taciti comportamenti (ma, comunque, una condotta attiva) tali da trarre in inganno il creditore facendogli credere che il titolo sarà pagato.

Dunque, non costituisce reato l’emissione dell’assegno a vuoto, nella convinzione che, alla data riportata sul titolo per il pagamento, esso sarà coperto.

È illecito amministrativo emettere assegni postdatati?

Non si rischia alcuna multa nell’emettere assegni postdatati. In verità l’unica sanzione scatta se l’assegno, al momento della presentazione, risulti scoperto: in tal caso, scatta il protesto e solo allora il Prefetto emetterà la multa per il debitore che ha emesso un assegno a vuoto. Pagando immediatamente l’assegno, però, nelle mani del creditore, facendosi rilasciare la liberatoria, si può evitare anche la sanzione ammnistrativa.

È illecito tributario emettere assegni postdatati?

L’assegno postdatato altro non è che un accordo tra il debitore e il creditore in virtù del quale il primo rilascia al secondo una garanzia (il titolo di credito) per un pagamento futuro. Così strutturato, l’assegno postdatato svolge, in tutto e per tutto, la stessa identica funzione della cambiale: anch’essa è una promessa di pagamento futuro per un debito attuale. Senonché se, all’acquisto della cambiale si paga l’imposta di bollo, essa non viene pagata quando si usa il blocchetto di assegni dalla banca. E allora, utilizzare l’assegno in funzione di garanzia di un futuro pagamento – cioè creare un assegno postdatato – non è altro che un modo per evadere l’imposta di bollo che invece si paga con la cambiale.

Quindi, l’emissione di un assegno postdatato è un’evasione fiscale: un’evasione però di piccolo conto, che può essere sanata in qualsiasi momento attraverso la cosiddetta “regolarizzazione del titolo”, ossia pagando l’imposta e le sanzioni. Una volta effettuata la regolarizzazione, l’assegno può essere portato in banca e pagato anche prima della scadenza della data riportata su di esso.

Diversamente, se non si vogliono pagare le tasse, il creditore può continuare a conservare l’assegno nel proprio cassetto e portarlo all’incasso solo alla data indicata sul titolo. In tal caso nessuno si accorgerà della piccola evasione fiscale e l’assegno verrà pagato regolarmente.

È lecito il patto con cui si rilascia un assegno postdatato in garanzia?

Per ultimo analizziamo l’aspetto civilistico del problema: è valido l’accordo – tacito – siglato (oralmente) tra creditore e debitore al momento del rilascio dell’assegno postdatato, accordo in virtù del quale il creditore si impegna a non portare l’assegno all’incasso prima della data ivi indicata? La risposta è no! Secondo infatti la nostra legge, l’assegno è un titolo pagabile a vista, ossia in qualsiasi momento e a favore di chiunque se ne trovi in possesso. Quindi, se il creditore, in possesso di un assegno postdatato, decide di farselo cambiare in banca prima del termine, può farlo benissimo e la banca non può negarlo. Ciò però a condizione che prima venga regolarizzato il titolo dal punto di vista tributario, pagando l’imposta di bollo e le sanzioni (v. punto precedente). Questo perché, come detto, l’accordo di postdatazione è nullo da un punto di vista civilistico, è come se non fosse mai stato siglato.

Ma allora che garanzie ha il debitore quando rilascia un assegno postdatato? Nessuna. Possiamo dire che l’assegno postdatato è un patto sulla fiducia tra le parti, ma nessuno garantisce che esso verrà rispettato.

C’è però da dire che l’assegno postdatato non può essere utilizzato dal creditore per una eventuale esecuzione forzata o per chiedere un decreto ingiuntivo al tribunale. Quindi, se da un lato il titolo è un’arma contro il debitore, lo è anche per il creditore che si troverà per le mani un coltello spuntato.

Che alternativa c’è all’assegno postdatato?

Chi vuole evitare tutti i problemi che si hanno con l’assegno postdato può emettere una cambiale, la quale ha la stessa identica forza (è anch’essa un titolo di credito e, se non onorata, consente al creditore di agire direttamente con un pignoramento, senza prima dover fare una causa o richiedere un decreto ingiuntivo). Inoltre, la cambiale non crea problemi né dal punto di vista tributario, né dal punto di vista civilistico.

È anche vero che la cambiale non garantisce l’immediato cambio attraverso il conto corrente, ma è anche vero che il conto corrente potrebbe pur sempre essere vuoto e, dunque, l’assegno non avere alcuna utilità.

Creditore e debitore potrebbero optare per una via di mezzo, emettendo un assegno con data immediata, con l’obbligo scritto, assunto dal creditore, di non portarlo all’incasso prima di una predeterminata scadenza. Se il creditore viola tale accordo, la banca è comunque obbligata a pagare il titolo, ma il debitore – in forza della violazione della scrittura privata – gli può chiedere il risarcimento dei danni dimostrando che tra le due parti, dopo l’emissione del titolo, era intervenuta una transazione in forza della quale al debitore era stato concesso maggior tempo per adempiere.

In ultimo c’è la possibilità di consegnare la somma a un terzo soggetto, arbitro e imparziale, che la custodirà nelle proprie mani: questi potrebbe essere un notaio, un avvocato o anche (per gli importi di valore rilevante) un’assicurazione o una banca (con un contratto di deposito o una polizza assicurativa sul pagamento). Il terzo avrà poi il compito di versare l’importo al creditore una volta verificatasi la condizione prevista dal contratto (l’adempimento di una prestazione professionale, il compimento di un’opera, ecc.).

 

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Sulla caparra si pagano le tasse? PDF Stampa E-mail
Consulenza Legale
domenica 24 luglio 2016

Vendita di immobile e preliminare non rispettato dall’acquirente: la caparra va dichiarata all’Agenzia delle Entrate e su tale importo si paga l’Irpef.

Sulla caparra si pagano le tasse: in particolare, nel caso di compravendita immobiliare, all’atto della stipula del contratto preliminare (cosiddetto “compromesso”), la caparra incassata dal venditore – a causa dell’inadempimento dell’acquirente che si è sottratto a firmare il contratto definitivo – va indicata nella dichiarazione dei redditi e su di essa si paga l’IRPEF. È quanto chiarito dalla Cassazione [1].

La caparra incassata dal contribuente ha infatti natura di risarcimento e rientra, quindi, nella previsione della legge [2] secondo cui sono considerati redditi della stessa categoria di quelli perduti “le indennità conseguite a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di diritti”.

La penale si compone di due parti: la prima viene versata a titolo di risarcimento per le spese sostenute (si tratta, quindi, della perdita economica conseguente, ad esempio, alle trasferte e viaggi, ai contatti con il cliente, al reperimento della documentazione, al pagamento di un professionista per la redazione del contratto, ecc.) e un’altra parte a titolo del mancato guadagno (cosiddetto “lucro cessante”). Quest’ultima, in particolare, è assimilata a reddito, e quindi assoggettata ad imposizione diretta, in quanto sostituisce il mancato reddito a causa dell’inadempimento dell’altro contraente. Pertanto la caparra incamerata, costituendo il risarcimento della perdita di proventi che, per loro natura avrebbero generato redditi tassabili per un soggetto privato, con il conseguimento di una plusvalenza [3], deve ritenersi essa stessa soggetta ad IRPEF.

La vicenda

Al centro della contesa tra l’Agenzia delle Entrate e un contribuente, la caparra da quest’ultimo ricevuta dalle mani di un altro soggetto con il quale aveva stipulato un compromesso per la vendita di un terreno, compromesso che poi quest’ultimo non aveva rispettato. L’Agenzia allora notificata un avviso di accertamento, ai fini dell’IRFEF, per l’incameramento, da parte del venditore, della suddetta somma a titolo di caparra penitenziale.

I giudici tributari di merito hanno sancito la legittimità dell’atto di accertamento.

La Cassazione ha confermato tale posizione stabilendo che è tassabile la caparra in quanto costituisce essa stessa il risarcimento della perdita dei proventi che avrebbero generato redditi tassabili per un soggetto privato, oltreché generare una plusvalenza.

 

[1] Cass. sent. n. 11307/16 del 31.05.2016.

[2] Art. 6, co. 2, del Testo Unico Imposte sui Redditi.

[3] Ai sensi dell’art. 67 del TUIR (redditi diversi).

 

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Conti dormienti: cosa sono e come ottenere il rimborso PDF Stampa E-mail
Consulenza Legale
venerdì 22 luglio 2016

I soldi depositati in conti correnti o strumenti finanziari e non movimentati in 10 anni passano ad un Fondo del Ministero dell’Economia. Ma si possono riavere.

I conti dormienti [1] sono i rapporti con le banche per un importo superiore ai 100 euro che non sono stati movimentati per almeno 10 anni. Si tratta di depositi di denaro e di strumenti finanziari, quindi libretti di risparmio, conti correnti (anche postali), azioni, obbligazioni o titoli di Stato. Le rendite delle polizze vengono, invece, considerate “dormienti” dopo un periodo di 2 anni, mentre gli assegni circolari lo sono dopo 3 anni dalla loro emissione.

Trascorsi quei periodi, le somme depositate passano ad alimentare un Fondo del Ministero dell’Economia e delle Finanze istituito dal Governo [2]. Il Ministero utilizza quel denaro per finalità sociali.

Prima, però, la banca deve informare il titolare del conto corrente, del libretto di risparmio o dell’investimento finanziario del rischio che corre se non “sveglia” il suo deposito dormiente. Il risparmiatore avrà 6 mesi di tempo per movimentare il suo denaro. E, nel caso non lo facesse e i soldi finissero al Fondo, avrà 10 anni di tempo per chiedere il rimborso.

Come svegliare un conto dormiente

Qualsiasi operazione portata a termine direttamente dal titolare di un rapporto con la banca (o di un suo delegato) serve a risvegliare un conto dormiente. Non è così, invece, nel caso quelle operazioni vengano compiute in modo automatico o non vedano il coinvolgimento diretto del titolare o di chi lo rappresenta.

Nel dettaglio, serve a svegliare il rapporto dormiente:

·         la comunicazione alla banca con cui si conferma la volontà di continuare il rapporto;

·         la comunicazione di cambio di residenza;

·         la richiesta di un libretto di assegni, del saldo del conto corrente, di un aggiornamento contabile o di una copia della documentazione bancaria;

·         un prelievo, un versamento, un pagamento con carta di credito o bancomat.

Non sveglia, invece, un conto dormiente:

·         l’accredito di un bonifico (ad esempio lo stipendio);

·         l’addebito automatico delle utenze (luce, gas, telefono, acqua, ecc.);

·         il Rid o altre operazioni automatiche;

·         la mancata movimentazione di un deposito finanziario o di una polizza assicurativa a tacito rinnovo.

Conti dormienti: alcuni casi particolari

Se il titolare di un conto dormiente è deceduto, gli eredi devono comunicare alla banca il proprio diritto a subentrare come titolari del conto, presentando un certificato di morte e i documenti necessari per le pratiche di successione.

Se si è titolari di più rapporti dormienti, non è necessario risvegliarli tutti ma soltanto uno.

Nel caso si possieda un libretto di risparmio al portatore, conviene contattare la propria banca per sapere se si tratta di un rapporto dormiente e per comunicare la volontà di continuare il rapporto stesso. Lo stesso vale per chi ha investito in titoli a tacito rinnovo o a lunga scadenza. Un controllo ogni tanto non guasta.

Come ottenere il rimborso di un conto dormiente

Il Ministero dell’Economia e delle Finanze, tramite una circolare, ha stabilito chi ha diritto al rimborso dei soldi persi sui conti dormienti. Si tratta dei titolari (o di chi ne fa le veci) di:

·         depositi di denaro non movimentati da 10 anni (conti correnti, libretti di risparmio, certificati di deposito);

·         depositi di strumenti finanziari non movimentati per 10 anni;

·         assegni circolari non incassati entro 3 anni dalla loro emissione;

·         polizze assicurative del Ramo Vita che prevedano una rendita o un capitale e che non siano state reclamate dal beneficiario entro 2 anni;

·         buoni fruttiferi postali emessi dopo il 14 aprile 2001 non incassati dal titolare entro 10 anni dalla scadenza del titolo.

Conti dormienti: niente rimborso

Non hanno diritto al rimborso i beneficiari di assegni circolari quando è decorso il termine di 3 anni, di polizze vita non riscosse entro 2 anni e di buoni fruttiferi postali non incassati entro 10 anni.

Per ottenere il rimborso è necessario inviare la domanda tramite raccomandata a/r o raccomandata a mano a: Consap S.p.A – Rif. Rapporti dormienti – via Yser, 14 – 00198 Roma, oppure all’indirizzo e-mail Indirizzo e-mail protetto dal bots spam , deve abilitare Javascript per vederlo . Il modulo per la presentazione della domanda è scaricabile dal sito www.consap.it. Occorrerà allegare copia del documento di identità e del codice fiscale, eventuale certificato di morte del titolare in caso di subentro (con dichiarazione di qualifica di erede) e copia del libretto di deposito o dell’assegno circolare.

Se i requisiti sono in regola e la domanda viene accolta (possono passare diversi mesi perché le richieste vengono esaminate in ordine di arrivo), Consap disporrà il pagamento del rimborso con le modalità scelte dal richiedente: bonifico o assegno circolare.

 

[1] D.P.R. 116/2007.

[2] Legge 266/2005.

 

 

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Mandato: di cosa si tratta? PDF Stampa E-mail
Consulenza Legale
venerdì 22 luglio 2016

Il mandato è un istituto giuridico in forza del quale un soggetto detto mandatario assume l’obbligazione di compiere uno o più atti giuridici per conto di un altro soggetto detto mandante.

Il mandato è il contratto col quale una parte (detta mandatario) si obbliga a compiere uno o più atti giuridici per conto, cioè nell’interesse, dell’altra (detta mandante). Ad esempio [1]: Tizio, non potendosi assentare dalla sua residenza, dà incarico a Caio di recarsi a Milano per trattare, per suo conto, l’acquisto di un determinato immobile.

Mandato: quali le tipologie?

Può accadere che il mandatario, oltre che per conto, agisca anche in nome del mandante. Il mandato, infatti, può essere con o senza rappresentanza.

Il mandato con rappresentanza si ha quando il mandante, mediante uno speciale atto (detto procura), conferisce al mandatario il potere di rappresentarlo, cioè il potere di manifestare per lui una certa volontà di fronte ai terzi. In tale ipotesi, quest’ultimo agirà di fronte ai terzi in nome e per conto del mandante e, per conseguenza, gli effetti degli atti giuridici da lui compiuti ricadranno direttamente sul mandante, che diverrà titolare dei diritti e degli obblighi relativi. Cosi, ad esempio, se Tizio (mandatario) da me regolarmente fornito di procura, compra, in mio nome e per mio conto, una casa da Caio, io divengo proprietario della casa ed io sono obbligato verso Caio per il pagamento del prezzo.

Il mandato senza rappresentanza, invece, si ha quando il mandante non ha conferito una procura al mandatario. In tale ipotesi, il mandatario agirà di fronte ai terzi per conto del mandante, ma in nome proprio, e per conseguenza gli effetti degli atti giuridici compiuti ricadranno su di lui che, tuttavia, dovrà successivamente trasferirli al mandante, in virtù dell’accordo con questi stipulato. Facciamo ancora una volta un esempio per capire: se Tizio (mandatario senza rappresentanza) acquista per mio conto, ma in nome suo, una casa da Caio, egli ne diviene proprietario ed è obbligato verso Caio per il pagamento del prezzo. Successivamente, attraverso un regolare contratto di compravendita, egli trasferirà a me la proprietà della casa dietro il prezzo corrispettivo.

Con riferimento all’oggetto si distingue tra mandato generale e speciale, cui qualcuno aggiunge il mandato generico.

Il mandato speciale è quello che ha ad oggetto uno o più affari specificatamente determinati e conferisce al mandatario il potere di compiere solo quel negozio giuridico previsto nel contratto di mandato.

Il mandato generale concerne tutti gli affari che possono riguardare il mandante; se le parti non hanno previsto diversamente, esso comprende solo il potere di compiere gli atti di ordinaria amministrazione.

Il mandato generico conferisce il potere di compiere tutti gli atti che appartengano alla categoria che è indicata nel mandato.

Il mandato comprende anche le attività accessorie necessarie per compiere gli atti o l’atto per cui vi è stato espresso conferimento (per esempio è stato ritenuto necessario e accessorio anche l’atto di stipulazione di un contratto preliminare rispetto al conferimento di un mandato ad acquistare o a vendere).

Mandato: differenze con altri contratti

Caratteristica del contratto di mandato è che al mandatario è conferita una certa autonomia nell’esecuzione dell’incarico, ed è ciò che distingue tale figura dall’ambasceria, in cui il cosiddetto nuncius si limita a riferire semplicemente la volontà così come è stata esternata dall’interessato, senza possibilità di effettuare scelte discrezionali. Per questo motivo al nuncius non è richiesta la capacità di agire; inoltre, non è mai parte del negozio.

Da sottolineare anche la differenza tra mandato e rapporto di lavoro subordinato che sarebbe da ravvisarsi nel fatto che il mandatario compie attività giuridiche, mentre il lavoratore subordinato attività materiali; in realtà la differenza non è questa, perché in astratto ciò che è oggetto del mandato può esserlo anche del rapporto di lavoro subordinato; la differenza risiede, invece, principalmente nel fatto che il mandatario non ha un vincolo di subordinazione rispetto al mandante.

Rispetto al contratto d’opera [2], la differenza sta nel fatto che in questo la prestazione consiste nell’eseguire un’opera o un servizio a carattere prevalentemente tecnico, di tipo manuale o intellettuale e non negoziale, mentre quella del mandatario consiste nel compiere atti giuridici.

Più difficile è la distinzione quando il contratto di opera rientra nel cosiddetto contratto d’opera intellettuale: ad esempio, nella prestazione di un avvocato rientra sia il compimento di attività di tipo intellettuale che di atti giuridici. Il criterio discretivo, allora, sarà quello della prevalenza: occorrerà vedere, cioè, se nel contratto prevalga il compimento dell’attività in sostituzione del mandante (nel qual caso avremo un mandato), o se prevalga la funzione di messa a disposizione delle conoscenze tecniche da parte del mandatario.

Rispetto al contratto di agenzia, la differenza principale sta nel fatto che l’agente deve solo reperire i clienti e promuovere la conclusione di contratti, mentre il mandatario deve concluderli. L’attività dell’agente, quindi, è di tipo prettamente materiale. Un ulteriore differenza sta nella maggiore autonomia di cui gode l’agente rispetto al mandatario. In realtà, la distinzione può farsi ardua nella pratica, perché spesso l’agente è incaricato di concludere direttamente i contratti per conto del proponente; anche qui il criterio discretivo sarà quello della prevalenza, nel senso che deve ravvisarsi un contratto di agenzia là dove sia prevalente la funzione del reperire i clienti rispetto a quella di concludere i contratti.

Mandato: come va svolta l’attività?

Il principale obbligo del mandatario è quello di eseguire il mandato con la diligenza del buon padre di famiglia, attenendosi alle istruzioni ricevute dal mandante.

Quest’ultimo, da parte sua, deve fornire al mandatario i mezzi necessari per l’esecuzione del mandato, rimborsargli le spese incontrate e, salvo patto contrario, pagargli un compenso.

 

[1] Art. 1703 cod. civ.

[2] Art. 2222 cod. civ.

 

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Cosa si intende per interessi compensativi? PDF Stampa E-mail
Consulenza Legale
venerdì 22 luglio 2016

La definizione di interessi compensativi è utilizzata da alcuni autori come sinonimo di interessi corrispettivi, mentre in giurisprudenza con essa spesso si identifica la circostanza che gli interessi delle obbligazioni risarcitorie si producono automaticamente.

Secondo quanto affermato dalla giurisprudenza nell’illecito extracontrattuale gli interessi compensativi sono una componente naturale del danno e della relativa domanda, da attribuire anche d’ufficio e destinata a compensare il creditore del mancato godimento del capitale durante il tempo occorrente per la liquidazione. Dovendo la riparazione pecuniaria spettante al danneggiato rapportarsi alla data del fatto illecito, che coincide con la diminuzione patrimoniale, gli interessi, proprio perché vanno a integrare il capitale liquidato, devono seguire la stessa sorte e, pertanto, decorrere dal dì dell’evento dannoso, ossia dal momento in cui il controvalore avrebbe dovuto essere spontaneamente pagato (e non dalla data della proposizione della domanda giudiziale) (Cass., 11 febbraio 2005, n. 2839).

Si veda anche, Cass. 9 febbraio 2005, n. 2654

“Il principio secondo cui gli interessi sulle somme di denaro liquidate a titolo risarcitorio decorrono dalla data in cui il danno si è verificato è sì applicabile soltanto in tema di responsabilità extracontrattuale da fatto illecito (in quanto il danneggiante-debitore è costituito in mora “ex re” fin dal giorno della consumazione dell’illecito, mentre nel caso di obbligazione risarcitoria derivante da inadempimento contrattuale gli interessi decorrono dalla data della domanda giudiziale, atto idoneo a costituire in mora il debitore), ma non può essere inteso nel senso che, ove l’obbligazione risarcitoria derivi da inadempimento contrattuale, sia autorizzata la considerazione di date diverse ai fini della rivalutazione monetaria dell’importo corrispondente al danno originario e della decorrenza degli interessi (cosiddetti) compensativi (nel caso sussista un danno da ritardo) sulle somme progressivamente rivalutate, non essendo concettualmente conciliabile l’accertamento dell’inadempimento con effetti risarcitori ad una certa data con la decorrenza da una data successiva degli interessi compensativi da ritardo nell’adempimento del debito risarcitorio. Ne consegue che, se l’equivalente monetario attuale del danno (da inadempimento o da illecito) non è sufficiente a tenere indenne il creditore da tutte le conseguenze pregiudizievoli del fatto dannoso a causa del ritardo col quale la somma gli è stata erogata, allora il giudice può liquidare tale danno anche sotto forma di interessi, a condizione che tale danno sia ritenuto esistente prima del riconoscimento di detti interessi (che ne costituiscono una mera modalità liquidatoria).”

Con la definizione in esame ci si riferisce alle ipotesi di interessi previsti dagli artt. 1499 c.c. (in materia di vendita), 1815 c.c. (in materia di mutuo) e 1825 c.c. (in materia di conto corrente). In particolare, in materia di vendita di cosa che produca frutti o altri proventi l’art. 1499 c.c., che reca la rubrica “Interessi compensativi sul prezzo”, prevede che siano dovuti gli interessi, salvo diversa pattuizione, da quando la cosa è consegnata e venduta, anche se il prezzo non è ancora esigibile.

L’art. 1815 dispone invece che, salva diversa pattuizione, il mutuatario deve corrispondere gli interessi al mutuante e rinvia, per la determinazione del tasso, alle norme relative agli interessi legali.

Gli interessi compensativi, sono quella categoria di interessi dovuti al creditore per il ritardo nell’adempimento del debito risarcitorio.

 

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