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Cartelle di pagamento Equitalia: diritto a vedere gli originali PDF Stampa E-mail
Consulenza Legale
lunedì 04 luglio 2016

Il contribuente ha diritto di accesso agli atti amministrativi e a chiedere di visionare l’originale della cartella di pagamento o una copia conforme, salvo che l’originale sia stato smarrito.

 

Se il contribuente chiede a Equitalia – con un accesso agli atti amministrativi – di visionare l’originale della cartella di pagamento a lui notificata (per controllarne, ad esempio, la legittimità, il contenuto o la corretta spedizione), non gli può essere consegnato solo l’estratto di ruolo o una semplice fotocopia della cartella stessa. Questo perché il cittadino ha diritto di acquisire conoscenza dell’originale della cartella esattoriale (qualora mai notificata e tornata indietro al mittente) o di acquisire una copia conforme della stessa (qualora l’originale sia stato notificato al contribuente).

Nello stesso modo, quando in causa Equitalia vuol dimostrare un proprio credito che asserisce essere stato regolarmente comunicato al contribuente tramite la notifica delle cartelle di pagamento, non potrà limitarsi a depositare l’estratto di ruolo: quest’ultimo, infatti, non fa altro che replicare le cartelle, ma non le sostituisce, così come non può sostituire neanche la prova della loro corretta notifica che solo l’avviso di ricevimento della raccomandata o la relazione di notifica del messo notificatore possono dare.

È quanto chiarisce il Tar Campania con una recente sentenza [1].

Equitalia non è tenuta a esibire le copie conformi delle cartelle solo se dimostri, con prova certa, che di queste non è più in possesso dell’originale o di eventuali copie.

In tutti gli altri casi, l’estratto di ruolo – ossia il tabulato, stampato attraverso la lettura delle risultanze interne dei computer di Equitalia, con la sintesi delle varie cartelle notificate e dei corrispondenti debiti del contribuente – non è assolutamente sufficiente a dimostrare il credito dell’Agente della riscossione.

L’estratto di ruolo non è una valida prova

Salvo qualche eccezione, la gran parte dei giudici è orientata nel senso di ritenere non idoneo l’estratto di ruolo a provare il fondamento dell’esecuzione esattoriale. Ad esempio, il Tar Puglia ha detto che “non è sufficiente il mero deposito in semplice copia degli estratti di ruolo, perché vanno esibiti gli atti in copia integrale e conforme all’originale, allo scopo di consentire la piena conoscenza del loro contenuto” [2].

Di questo stesso parere è la sentenza qui in commento secondo cui l’estratto di ruolo non può mai sostituire la cartella esattoriale, delle quali replica il ruolo.

Il Consiglio di Stato ha anch’esso chiarito quest’anno [3] che per soddisfare la richiesta di accesso agli atti di Equitalia non basta l’esibizione di un documento che l’Amministrazione, e non il privato ricorrente, giudica equipollente; infatti elemento fondamentale è la conformità del documento esibito all’originale; è, quindi, obbligo di Equitalia conservare le cartelle di pagamento notificate nei confronti dei contribuenti per almeno 5 anni. Durante tale arco di tempo, i cittadini hanno diritto ad ottenerne visione, non potendo, d’altra parte, essere considerati equipollenti gli eventuali estratti di ruolo messi a disposizione dagli uffici di Equitalia oppure dai soli avvisi di ricevimento delle cartelle di pagamento, dalle quali non può in alcun modo desumersi la pretesa erariale portata ad esecuzione.

Ed ancora, secondo il Tar Campania, l’estratto di ruolo non può essere considerato al pari delle cartelle di pagamento. In particolare, la cartella esattoriale è, per legge [4] un documento necessario per la riscossione degli importi contenuti nei ruoli e deve essere predisposta secondo il modello approvato con decreto del Ministero delle finanze. Gli estratti di ruolo sono invece degli elaborati informatici formati dall’ente impositore contenenti, in sintesi, gli elementi della pretesa creditoria.

La differenza ontologica tra i due documenti nemmeno può essere superata dalla tendenziale omogeneità contenutistica dei due atti. Non è, infatti, permesso all’Amministrazione e al privato che eserciti funzioni pubbliche di sostituire arbitrariamente il documento richiesto con altro, sebbene equipollente [5].

 

 

[1] Tar Campania sent. n. 1305/16 del 25.05.2016.

[2] Tar Bari, sent. n. 381/2015.

[3] Cons. St. sent. n. 317/2016.

[4] Art. 25 dPR n. 602/1973

[5] Tar Campania, sent. n. 5071/2015.

 

 

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Divisione di eredità: non solo sorteggio con estrazione a sorte PDF Stampa E-mail
Consulenza Legale
lunedì 04 luglio 2016

Beni immobili indivisibili: procedura di divisione dei beni in comunione ereditaria, sorteggio dei lotti derogabile quando vi siano interessi particolari di un erede degni di tutela.

 

Quando si divide l’eredità non sempre il giudice è tenuto a dividere i beni in lotti e ad assegnarli mediante estrazione a sorte tra i vari partecipanti alla comunione: in alcuni casi, infatti, si può derogare a tale procedura quando risulti che uno degli eredi abbia un interesse superiore agli altri su uno dei beni della massa. Così, per fare un esempio, se su uno degli immobili caduti in successione, un erede esercita già un’attività commerciale (si pensi a un cortile ove si trovano i tavolini per una pizzeria all’aperto; il piazzale per un’autorimessa, ecc.), il giudice può disporne l’assegnazione diretta a quest’ultimo, compensando gli altri eredi con differenti beni. È quanto chiarito dal Tribunale di Larino con una recente sentenza [1].

Il principio non è nuovo in giurisprudenza. Anche la Cassazione, pochi mesi fa [2], aveva concluso nello stesso senso: quando ci sono immobili da dividere tra più persone e il loro frazionamento diventi impossibile, il tribunale può eventualmente assegnare il bene all’erede titolare della quota maggiore, fermo restando che gli altri coeredi avranno diritto al pagamento, da parte di quest’ultimo, del conguaglio in denaro (leggi: “Divisione degli immobili ereditati e assegnazione delle quote”).

La sentenza qui in commento si inserisce nella stessa scia interpretativa e chiarisce che, in una divisione ereditaria, il criterio della divisione degli immobili in comproprietà in parti uguali, e dell’attribuzione per sorteggio, può essere derogato dal giudice per tener conto delle situazioni specifiche che si sono venute a creare sui singoli beni, come per esempio l’avvio e la prosecuzioni di una attività commerciale su uno di essi da parte di un erede.

La vicenda

Durante una divisione ereditaria (nella quale rientrata, tra l’altro, un appartamento e uno spiazzo), una delle parti si era opposta alla procedura di divisione per sorteggio chiedendo l’assegnazione dell’intero piazzale poiché su di esso aveva sempre esercitato la propria attività di rivendita di auto usate ed avendo effettuato anche opere di manutenzione straordinaria che avevano migliorato l’immobile. Il tribunale ha accolto la richiesta, assegnandogli il cortile, mentre all’altro erede ha attribuito la proprietà esclusiva dell’appartamento.

La divisione dell’eredità

In caso di divisione dell’eredità, il codice civile [3] stabilisce il criterio dell’estrazione a sorte nel caso di uguaglianza di quote. Ciò a garanzia della trasparenza delle operazioni divisionali contro ogni possibile favoritismo [4]. La norma prevede appunto che l’assegnazione delle porzioni eguali è fatta mediante estrazione a sorte, mentre, per le porzioni diseguali, si procede mediante attribuzione.

Tale criterio, però, ribadiscono i giudici, non ha carattere assoluto, ma soltanto tendenziale. Esso, pertanto, può essere derogato in base a valutazioni prettamente discrezionali, che possono attenere non soltanto a ragioni oggettive legate alla condizione funzionale ed economica dei beni, quale risulterebbe dall’applicazione della regola del sorteggio, ma anche a fattori soggettivi di apprezzabile e comprovata opportunità.

In un altro caso, la Cassazione [5] ha attribuito integralmente un’abituazione ad alcuni degli eredi che già vi avevano abitato per molti anni effettuando cospicui miglioramenti, destinati a soddisfare le loro specifiche esigenze: detti miglioramenti, però, sarebbero risultati inutili e privi di qualsiasi valore economico in caso di attribuzione dell’immobile agli altri eredi.

 

[1] Trib. Larino, sent. 17.03.2016.

[2] Cass. sent. n. 22663/2015.

[3] Art. 729 cod. civ.

[4] Tale procedimento si applica anche nell’ipotesi di divisione dei beni comuni, in virtù del rinvio recettizio di cui all’art. 1116 cod. civ.

[5] Cass. sent. n. 109/2007.

 

 

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Come contestare una multa senza pagare PDF Stampa E-mail
Consulenza Legale
lunedì 04 luglio 2016

Rispettare il Codice della Strada è obbligatorio. Ma spendere soldi in una contravvenzione fatta male no. Un vizio di forma o di sostanza può annullare la stangata.

 

Fatta la multa, fatto il danno? Non è detto. Premesso che il rispetto del Codice della Strada e delle norme che regolano, ad esempio, i divieti di sosta, è più che doveroso, esistono dei vizi di forma e di sostanza che trasformano la multa ricevuta in carta straccia. Cioè, in un atto che è possibile contestare senza pagare nulla. Insomma, non sempre il vigile ha ragione.

Contestare una multa senza pagare per vizio di forma

I vizi di forma più comuni sono l’assenza di dati essenziali per fare la contravvenzione e la notifica tardiva della multa.

Per quanto riguarda il primo caso, la legge [1] prevede che il verbale di accertamento della multa riporti il giorno, l’ora ed il posto in cui è stata commessa l’infrazione, le generalità del conducente la sua residenza ed, eventualmente, il nome del proprietario del veicolo. Non solo: sul verbale ci devono essere scritti anche gli estremi della patente del conducente, il tipo di veicolo e la targa, chi è l’agente che ha fatto la contravvenzione, e come e in quali circostanze è stata commessa l’infrazione.

Altro vizio di forma è quello della notifica in ritardo della multa. La contravvenzione deve essere comunicata entro 90 giorni dalla data dell’infrazione [2].

Contestare una multa per vizio di sostanza

Anche per fare una multa, oltre alla forma ci vuole la sostanza. E in alcuni casi, la mancanza di quest’ultima può essere un motivo per contestare la multa senza pagare.

Prendiamo, ad esempio, l’autovelox, uno dei nemici acerrimi di chi è alla guida in autostrada come in città. C’è, infatti, chi è stato costretto a pagare una multa di quasi 100 euro perché sorpreso a 63 chilometri orari in una via isolata di campagna ma appartenente al territorio comunale di qualche paesino sperduto. Una vera seccatura, anche perché chi ha preso la multa non torna mai “sul luogo del reato” per verificare se l’autovelox è regolarmente tarato oppure no. Ed, invece, dovrebbe essere così. Affinché la contravvenzione sia regolare, la taratura dell’autovelox deve essere fatta periodicamente e documentata dall’amministrazione che gestisce il segnalatore di velocità. Nel caso si volesse presentare ricorso, conviene chiedere all’autorità competente la documentazione che attesti la regolare taratura dell’autovelox. Se così non fosse, la multa è nulla e non si deve pagare.

Inoltre, Cassazione e tribunali hanno stabilito a suon di sentenze alcuni casi in cui le multe rilevate dall’autovelox sono nulle. Ad esempio, quando l’eccesso di velocità è motivato da uno stato di necessità del conducente [3] o quando manca il doppio segnale della presenza dell’autovelox nelle strade a due corsie [4].

Restiamo in città, dove spesso si lascia la macchina sulle strisce blu, si paga il ticket del parcheggio ma si ritorna a prendere l’auto quando il termine orario è stato superato. Insomma, pago per un’ora ma parcheggio per un’ora e mezza. In questo caso, la contravvenzione potrebbe essere annullata se non c’è una delibera comunale in materia che legittimi questo tipo di multa. Questo perché lasciare la macchina nelle strisce blu per un tempo superiore a quello pagato non rappresenta una violazione del codice della strada. Tutt’al più si dovrà rispondere di inadempimento nei confronti del gestore del parcheggio. Si dovrà pagare, dunque, la differenza, ma non una multa. Sempre che, come detto, il Comune non abbia stabilito il contrario con un’apposita delibera.

Altri vizi di sostanza contestabili per non pagare una multa possono riguardare le contravvenzioni su auto la cui targa non è leggibile sulla foto dell’autovelox o la segnaletica stradale assente, posta su un solo lato o non leggibile.

Contestare multe senza pagare: come fare ricorso

Il ricorso per non pagare una multa va presentato al Prefetto o alla Polizia Municipale entro 60 giorni dalla data in cui è stata notificata la multa. La domanda va presentata di persona o tramite raccomandata a/r. E’ necessario specificare le generalità del conducente, i dati della vettura e del verbale, i motivi della contestazione e quelli per cui si chiede la sospensione della sanzione.

Se il Prefetto ritiene che il conducente ha ragione, annulla la contravvenzione e non si paga la multa. Se, invece, decide che la contestazione è giusta, emette un’ordinanza di pagamento (almeno il doppio della prima sanzione più le spese legali).

Se il conducente insiste nell’avere ragione si può rivolgere entro 30 giorni al Giudice di Pace competente rispetto al luogo in cui è stata commessa la presunta infrazione (pagando un contributo unificato in base all’ammontare della multa). Questo passaggio è possibile anche prima di ricorrere al Prefetto.

 

[1] Art. 383 D.P.R. n. 495/1992.

[2] Art. 201 Codice della Strada.

[3] Sent. Cass. 7198/2016.

[4] Sent. Trib. Trento n. 856/15.

 

 

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Assegno senza autorizzazione o provvista: che vuol dire? PDF Stampa E-mail
Consulenza Legale
lunedì 04 luglio 2016

Quando un assegno è emesso senza autorizzazione e cosa significa che non c’è provvista?

 

Si sente spesso dire che un assegno è stato emesso senza autorizzazione” o che è stato staccato “senza provvista”. Si tratta di due violazioni differenti sulle norme relative alla circolazione dei titoli di credito. Prima però di comprendere cosa significa emettere un assegno senza autorizzazione o senza provvista è bene fare un passo indietro per ricordare cos’è, per il diritto, un assegno.

Cos’è un assegno?

Formalmente l’assegno è un ordine che il titolare di un conto corrente impartisce alla propria banca di pagare la somma su di esso indicato a chiunque porterà detto assegno allo sportello per l’incasso. È quindi “pagabile a vista”, ossia a semplice presentazione, senza che la banca possa subordinare la consegna dei soldi a particolari riconoscimenti (se non la verifica della firma sull’assegno) autorizzazioni o all’apertura di altri conti.

Detto ordine di pagamento è peraltro irrevocabile nei primi 8 giorni dall’emissione (15 se l’assegno viene pagato in un Comune diverso da quello di emissione). Oltre la scadenza di tali termini, il correntista può revocare l’ordine di pagamento (fermo restando, comunque, il suo debito). A riguardo leggi “Il termine per farsi pagare un assegno in banca”.

Dal punto di vista giuridico, l’assegno è anche un titolo di credito astratto: con questa parola si intende che esso è già, in sé e per sé, la prova certa dell’aver diritto a una determinata somma, a prescindere dalle ragioni che sono alla base del credito stesso che, almeno in prima battuta, non rilevano né la banca può pretendere di conoscerle. Si può trattare di una donazione, di un contratto, di un prestito di denaro (cosiddetto mutuo), di un risarcimento, di un pagamento a saldo e stralcio per alcune contestazioni sorte tra le parti, ecc.: tutte queste ragioni non rilevano perché, a prescindere da esse, chi ha in mano un assegno ha sempre diritto ad essere pagato.

“Titolo di credito” significa anche un’altra cosa molto importante: che se l’assegno non viene pagato, il creditore può direttamente notificare al debitore un atto di precetto e avviare, nei suoi confronti, un pignoramento senza bisogno di fargli prima causa o richiedere un decreto ingiuntivo (tale possibilità è riconosciuta, però, sempre a condizione che si agisca prima di 6 mesi dall’emissione dell’assegno).

Come si emette un assegno?

Il correntista si trova in possesso del carnet degli assegni perché ne ha fatto richiesta alla propria banca e questa l’ha autorizzato. Si crea quella che viene comunemente chiamata “convenzione di assegno”. Ciò significa che si realizza una sorta di contratto tra il cliente e l’istituto di credito in forza del quale il primo viene autorizzato a utilizzare il blocchetto degli assegni secondo peraltro le norme di legge che ne regolano l’emissione. Tali norme impongono al correntista una serie di obblighi particolarmente importanti come ad esempio la compilazione completa rispettando tutti i requisiti formali (indicazione di data e luogo di emissione, importo, beneficiario, firma) e la presenza di soldi sul conto per coprirne il pagamento (cosiddetta provvista).

Se l’assegno è privo anche di una sola delle informazioni necessarie, la banca ha il diritto di rifiutarne il pagamento a chi lo presenta. La completa e corretta compilazione rappresenta una forma di tutela per il cliente che lo emette, soprattutto contro il rischio di alterazioni del suo contenuto.

Quando un assegno è emesso senza autorizzazione?

Da quanto detto sopra si intuisce che la mancanza di autorizzazione da parte della banca ad emettere l’assegno fa venire meno la legittimità dell’assegno che, pertanto, non sarà più pagabile a vista, a prescindere dal fatto che il prenditore (il creditore) abbia diritto a essere pagato.

Un assegno è emesso senza autorizzazione quando viene meno il contratto tra la banca e il cliente in virtù del quale la prima autorizza il secondo ad emettere assegni. Il che può verificarsi per una serie di motivi. Ad esempio, un assegno viene emesso senza autorizzazione perché:

·         il correntista ha chiuso il proprio conto corrente prima dell’emissione dell’assegno;

·         il correntista ha emesso un assegno nonostante abbia aperto il conto corrente (o “acceso”, come si dice tecnicamente) in assenza di alcuna convenzione di assegni;

·         il correntista ha denunciato il furto o lo smarrimento dell’assegno consegnando alla banca la relativa denuncia;

·         la banca ha revocato l’autorizzazione all’emissione dell’assegnocome nel caso di debitore fallito o protestato;

·         la banca ha già revocato l’autorizzazione all’emissione per un assegno emesso prima di quello che viene presentato per il pagamento;

·         l’assegno è stato emesso su conto intestato a un’altra persona o per altre motivazioni che non giustifichino l’emissione di un assegno.

Quando un assegno è emesso senza provvista?

Per poter essere pagato, l’assegno deve anche essere “coperto”, ossia sul conto corrente del titolare del carnet ci devono essere i soldi sufficienti per soddisfare integralmente chi porterà tale assegno in banca.

Se manca tale copertura, l’assegno si dice “senza provvista”. In pratica, ciò si verifica quando sul conto corrente di chi lo ha emesso manchino le somme necessarie affinché la banca possa eseguire l’ordine di pagamento, anche solo per una parte dell’importo.

L’emissione di un assegno privo di provvista (o, come comunemente si dice, “assegno a vuoto”) non è più un reato, ma solo un illecito amministrativo punito dalla legge con sanzioni amministrative emesse dal Prefetto e con la “revoca di sistema” ossia il divieto ad emettere altri assegni.

Le sanzioni sono tutte di carattere pecuniario e variano da € 516 a € 3.099 e possono salire ulteriormente in caso di importo facciale superiore a € 10.329 o di irregolarità commessa più volte (reiterazione).

Solo in caso di mancato pagamento di tali sanzioni amministrative può scattare la reclusione (anche se, in realtà, trattandosi di reato minore, viene esclusa la pena detentiva). Le sanzioni possono essere evitate attraverso il pagamento tardivo dell’assegno; il pagamento tardivo comprende oneri accessori che fanno aumentare il costo per l’emittente.

Oltre alla multa del Prefetto e al divieto di emettere altri assegni, una ulteriore conseguenza per l’emissione di assegni a vuoto è il protesto: si tratta di un atto effettuato dal notaio con cui quest’ultimo accerta il mancato pagamento dell’assegno e viene data pubblicità della mancata provvista, con conseguente perdita della reputazione da parte di chi aveva emesso l’assegno, posta l’esistenza di un registro pubblico dei protesti, visionabile da chiunque.

Nei casi più gravi, l’illecito comporta anche l’applicazione, per almeno due mesi, di una o più delle seguenti sanzioni: interdizione dall’esercizio di attività professionale o imprenditoriale; interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese; incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione.

Il prenditore dell’assegno, rimasto insoddisfatto, conserva la possibilità di agire con un pignoramento nei confronti del debitore, utilizzato come prova del credito l’assegno non pagato e protestato.

 

 

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Per quanto tempo resto segnalato in CRIF se non pago? PDF Stampa E-mail
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lunedì 04 luglio 2016

Cattivi pagatori di banche e finanziarie: i tempi di permanenza dei debitori all’interno della centrale rischi CRIF.

 

Per quanto tempo il debitore rimane segnalato nella Crif se non paga una rata del mutuo o del finanziamento alla banca? Quali sono le conseguenze e, soprattutto, come si fa ad essere cancellati da Crif una volta iscritti? Quali sono le modalità per chiedere a Crif una visura onde conoscere la propria posizione? Sono queste le domande che, più spesso, si pone chi ha a che fare con banche e finanziarie, specie di questi tempi che la crisi non consente di essere sempre puntualissimi nei pagamenti.

Prima però di rispondere a queste domande, diamo subito una buona notizia: si viene segnalati in Crif o in qualsiasi altra Sic (Sistemi di informazione creditizia) solo nei casi in cui il ritardo o l’omesso pagamento sia almeno di due rate consecutive o due mesi consecutivi. Inoltre l’iscrizione non riguarda il mancato pagamento di debiti con Equitalia, per cui non scatta in caso di mancato adempimento del piano di rateizzazione relativo a cartelle esattoriali.

Non è una novità, del resto, che il mancato pagamento di una rata del mutuo o il semplice ritardo generino in chiunque la paura di essere segnalati nelle Centrali Rischi dei cattivi pagatori, la più temuta delle quali, perché più nota, è certamente la CRIF. Ciò perché le conseguenze, seppure non sanzionatorie, riguardano la possibilità, in futuro, di accedere a finanziamenti, mutui, aperture di credito (cosiddetti “fidi”); inoltre la banca potrebbe negare l’autorizzazione all’emissione di assegni, potrebbe chiedere la restituzione della carta di credito e, non in ultimo, nei casi più gravi, negare la possibilità diaprire un conto corrente.

Ecco perché è vitale, in alcuni casi, conoscere per quanto tempo vengono conservati nelle Centrali Rischi i dati relativi ai ritardi di pagamento.

Centrale rischi della Banca d’Italia e Crif

Una precisazione viene d’obbligo per non cadere in un errore che spesso si compie: una cosa è la Centrale Rischi della Banca d’Italia, che è una banca dati pubblica, nella quale vengono indicati i mancati pagamenti di finanziamenti e mutui e tutto ciò che riguarda la “cattiva reputazione” del consumatore nei confronti degli intermediari finanziari. Diversa invece è la Crif, che è una banca dati privata, dove non viene indicata solo la storia negativa del correntista, ma anche i suoi meriti come ad esempio il corretto adempimento di un mutuo.

Per quanto tempo rimango segnalato in CRIF se non pago?

La legge [1] stabilisce dei tempi tecnici per la conservazione dei dati negativi in Crif. Alla scadenza di tali termini il debitore viene automaticamente cancellato, senza bisogno di richieste o istanze specifiche. Ecco perché è bene sempre diffidare dalle società che promettono servizi di cancellazione da Crif, posto che queste non potrebbero accelerare i tempi di cancellazione.

Per quanto riguarda le informazioni creditizie di tipo negativo relative a ritardi nei pagamenti, successivamente regolarizzati, tali informazioni vengono conservate in Crif entro i seguenti termini, oltre i quali vengono cancellate d’ufficio:

        richieste di finanziamento: 6 mesi, qualora l’istruttoria lo richieda, o 1 mese in caso di rifiuto della richiesta o rinuncia della stessa;

        morosità di due rate o di due mesi poi sanate: 12 mesi dalla regolarizzazione;

        ritardi superiori sanati anche su transazione: 24 mesi dalla regolarizzazione;

        eventi negativi (ossia morosità, gravi inadempimenti, sofferenze) non sanati: 36 mesi dalla data di scadenza contrattuale del rapporto o dalla data in cui è risultato necessario l’ultimo aggiornamento (in caso di successivi accordi o altri eventi rilevanti in relazione al rimborso);

        rapporti che si sono svolti positivamente (senza ritardi o altri eventi negativi): 36 mesi in presenza di altri rapporti con eventi negativi non regolarizzati.

 

 

[1] Art. 6. Conservazione e aggiornamento dei dati, dell’Allegato A.5 del Codice in materia di protezione dei dati personali – Codice di deontologia e di buona condotta per i sistemi informativi gestiti da soggetti privati in tema di crediti al consumo, affidabilità e puntualità nei pagamenti.

 

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