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Agevolazioni prima casa: se i coniugi hanno residenza diversa PDF Stampa E-mail
Mutui a Privati
mercoledì 29 giugno 2016

In caso di acquisto di un immobile, non conta il fatto che il marito non abbia trasferito, come la moglie, la residenza nella nuova casa nei 18 mesi se tale appartamento è stato destinato a residenza della famiglia.

Via libera della Cassazione al bonus prima casa qualora i coniugi abbiano residenza diversa; non conta infatti che solo il marito o solo la moglie abbia trasferito, nei 18 mesi successivi all’acquisto, la propria residenza: quel che davvero rileva è che sia stato dichiarato che nel predetto immobile la famiglia abbia la sua residenza. È quanto chiarito dalla Cassazione con una sentenza pubblicata ieri [1].

In pratica, si può ottenere l’agevolazione “prima casa”, nell’ipotesi di acquisto effettuato da due coniugi, non soltanto se entrambi risiedono nel Comune dove l’abitazione è ubicata, ma anche se risiedono in due Comuni diversi, a condizione però che:

1.      l’immobile acquistato sia ubicato in uno di questi Comuni;

2.      in tale Comune la famiglia (considerata nel suo insieme) abbia la sua residenza;

3.      si tratti di un acquisto compiuto in regime di comunione legale dei beni.

Dunque, per ottenere l’agevolazione “prima casa”, nel caso di acquisto effettuato da due coniugi, non è necessario che entrambi risiedano nel Comune ove è ubicata l’abitazione oggetto di acquisto, ben potendo conservare una residenza diversa: in tal caso, però, l’agevolazione sarà mantenuta solo alle predette tre condizioni.

La residenza nel Comune ove si trova l’immobile

Come noto, il bonus prima casa si può ottenere solo se la casa “agevolata” si trova:

– nel Comune in cui l’acquirente ha già la sua residenza oppure nel quale egli stabilirà la propria residenza entro 18 mesi dalla data del rogito d’acquisto;

– oppure nel Comune in cui l’acquirente svolge la propria attività di lavoro o di studio;

– oppure nel Comune in cui ha sede il datore di lavoro dell’acquirente, se si tratta di un acquirente trasferito all’estero per ragioni di lavoro;

– oppure in qualsiasi Comune italiano, se si tratta di un acquirente cittadino italiano emigrato all’estero, che non abbia altre case sul territorio italiano.

Dunque, se all’atto dell’acquisto del nuovo immobile “agevolato”, il contribuente non ha già trasferito la propria residenza ove si trova detto immobile, lo può fare entro i successivi 18 mesi. In caso contrario, perderà le agevolazioni di cui ha usufruito (Iva al 4% oppure imposta di registro al 2%, invece che rispettivamente al 20% o al 9%) e dovrà pagare allo Stato le maggiori imposte.

L’immobile acquistato in comunione dei beni

Ma che succede nel caso in cui l’immobile sia stato acquistato da una coppia di coniugi in comunione dei beni, per cui la nuova casa entra nel patrimonio di entrambi? Il requisito della residenza deve riguardare sia il marito che la moglie o può, invece, essere rispettato solo da uno dei due?

La sentenza in commento apre le porte a un’estensione dei benefici fiscali che, almeno dal tenore letterale della norma, non era inizialmente ritenuta possibile. Infatti, a rigore, si era ritenuto in passato che, nel caso di acquisto effettuato da due coniugi, ai fini dell’ottenimento dell’agevolazione “prima casa”, entrambi dovessero avere (o trasferire nei successivi 18 mesi) la residenza nel Comune ove è ubicato l’immobile oggetto di acquisto agevolato. Affermare, dunque, che l’agevolazione spetta anche se uno dei due coniugi non abbia questo requisito della residenza, significa senz’altro guardare la normativa in questione con un’ottica assai estensiva.

La Corte arriva a questo risultato ricorrendo al concetto di “residenza della famiglia” quale soggetto autonomo rispetto ai coniugi; cosicché, una volta provato che la casa oggetto di acquisto agevolato è destinata ad ospitare appunto la “residenza della famiglia”, non importa poi che uno dei coniugi abbia altrove la propria residenza (“in considerazione del fatto che i coniugi non sono tenuti ad una comune residenza anagrafica, ma reciprocamente alla coabitazione, sicché un’interpretazione della legge tributaria, che del resto parla di residenza e non di residenza anagrafica, conforme ai principi del diritto di famiglia, porta a considerare la coabitazione con il coniuge acquirente come elemento adeguato a soddisfare il requisito della residenza ai fini tributari”).

[1] Cass. sent. n. 13334/16 del 28.06.2016.

 

 

 

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Ultimo aggiornamento ( domenica 17 luglio 2016 )
 
Assegno: la banca può rifiutare il pagamento se non ho un conto? PDF Stampa E-mail
Consulenza Legale
mercoledì 29 giugno 2016

Anche chi non ha un conto corrente ha diritto a ottenere il pagamento di un assegno e, quindi, la relativa somma in contanti, benché questa sia superiore al limite di tracciabilità dei 3.000 euro.

La banca non può rifiutarsi di pagare un assegno a colui che ne sia possessore e lo esibisca allo sportello. La legge, infatti, stabilisce che l’assegno è un titolo di credito pagabile a vista, ossia a chiunque lo presenti in banca. Il cassiere dell’istituto di credito può rifiutare il pagamento solo se l’assegno risulti alterato, rovinato o la filma risulti – da un controllo visivo – palesemente diversa rispetto a quella del titolare del conto corrente. A ciò si aggiunge, ovviamente, anche l’ipotesi in cui l’assegno non sia coperto.

È capitato spesso che qualche filiale di banca abbia rifiutato il pagamento di un assegno al relativo possessore in quanto privo di conto corrente. E ciò sulla base di svariate motivazioni, tra le quali il fatto che l’importo da corrispondere fosse superiore alla soglia della circolazione dei contanti (dal 1° gennaio 2016, l’importo è stato elevato da 1.000 a 3.000 euro). Così, non sono stati pochi gli italiani costretti ad aprire un conto corrente per vedersi accreditare una somma di rilevante valore, per poi, una volta incassato l’assegno, procedere alla chiusura del rapporto bancario. Il tutto, ovviamente, pagando le spese alla banca.

Tuttavia, è bene ricordare che l’essere titolari di un conto corrente non è condizione per ottenere il pagamento di un assegno di cui si dispone legittimamente: pertanto, anche chi non ha un conto corrente acceso presso la banca ove è stato presentato l’assegno per l’incasso – banca che deve essere quella riportata sull’assegno stesso – può esigere il pagamento del predetto titolo di credito.

L’essere titolare di un conto corrente, di certo, facilita l’operazione: il correntista, infatti, solo in questo caso può chiedere il versamento dell’assegno non solo presso la banca di emittenza dell’assegno, ma anche presso la propria, portandolo per l’incasso. In pratica, il titolare del conto potrà recarsi presso il proprio sportello e far accreditare l’assegno sul proprio conto. In assenza di un conto, invece, egli dovrà presentarsi esclusivamente presso la banca di colui che ha emesso l’assegno.

La banca, in definitiva, non può rifiutarsi di pagare un assegno a chi non ha un conto corrente, né può imporre a quest’ultimo l’apertura di un conto presso il proprio istituto di credito solo perché la somma da incassare è superiore al limite di utilizzo del contante. Infatti, gli obblighi di tracciabilità del pagamento sono stati rispettati proprio dalla presenza dell’assegno, che consente di risalire al passaggio di denaro. Non c’è quindi bisogno di un ulteriore passaggio tracciabile quando il denaro passa di mano dalla banca al beneficiario dell’assegno.

 

 

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Il termine per farsi pagare un assegno dalla banca PDF Stampa E-mail
Consulenza Legale
mercoledì 29 giugno 2016

Quali sono i termini per farsi pagare dalla banca un assegno e che succede se ne chiedi l’incasso oltre tali termini?

Esiste un termine per farsi pagare un assegno dalla banca: secondo, infatti, la legge che disciplina i titoli di credito, l’assegno deve essere presentato per l’incasso entro:

·         8 giorni quando il Comune di emissione dell’assegno è lo stesso di quello del pagamento (si dice, a riguardo, “assegno su piazza”); in pratica, ciò avviene se la banca ove il beneficiario dell’assegno si reca per chiederne l’incasso è situata nello stesso Comune di quella di chi ha emesso l’assegno;

·         15 giorni se pagabile in altro Comune rispetto a quello di emissione (a riguardo si dice “assegno fuori piazza”).

Che succede se trascorre il termine per farsi pagare l’assegno? Il beneficiario dell’assegno conserva certamente il diritto di credito, il quale non va, solo per questo, in prescrizione (v. dopo). Inoltre egli può ugualmente presentarsi in banca per farsi pagare l’assegno, tuttavia, se il termine è scaduto, chi ha emesso l’assegno può ordinare alla banca di non pagarlo più. Per comprendere ciò dobbiamo fare una importante precisazione qui di seguito.

Si può revocare il pagamento di un assegno?

Chi emette un assegno non fa altro che inviare un ordine alla propria banca di pagare una determinata somma (indicata sull’assegno stesso) a chiunque si recherà allo sportello munito di tale titolo (l’assegno, infatti, è pagabile “a vista”).

Chi emette l’assegno non può mai revocare l’assegno ossia tale ordine impartito alla propria banca: egli non può, cioè, chiedere all’istituto di credito di non pagare più l’assegno. Può farlo solo se inoltra una denuncia di smarrimento, presentandone una copia presso la filiale di banca. Attenzione però a non effettuare denunce strumentali solo per frodare i creditori e bloccare assegni già emessi: chi denuncia falsamente lo smarrimento di un assegno corre il rischio di una querela per calunnia. Ciò perché il possessore dell’assegno, che si presenti allo sportello per chiederne il pagamento, potrebbe essere inquisito per ricettazione, trovandosi in mano un assegno dichiarato smarrito. Questo esporre, consapevolmente, una persona innocente ad un procedimento penale può comportare, appunto, la controdenuncia per calunnia.

Pertanto, se chi emette l’assegno ordina alla banca di non pagarlo più, la banca non è tenuta a rispettare tale ordine; anzi, resta obbligata a pagare l’assegno, a dispetto della volontà del proprio cliente.

L’unico caso in cui chi emette l’assegno può revocarne il pagamento è se sono trascorsi i termini di pagamento (8 o 15 giorni a seconda che sia “su piazza” o “fuori piazza”).

In particolare, trascorsi gli 8 o i 15 giorni l’emittente può ordinare alla banca di non effettuare più il pagamento e viene meno la possibilità di attivare una serie di misure a protezione del beneficiario previste dalla legge in caso di mancato pagamento dell’assegno; la più importante è il “protesto“, che consente di agire per via giudiziaria al fine di ottenere la somma dovuta.

Trascorso il termine non viene meno il credito

Questo però non vuol dire che il possessore dell’assegno non abbia più la possibilità di recuperare il proprio credito. Egli potrebbe utilizzare l’assegno come prova del proprio diritto a ottenere la somma di denaro e farsi, così, rilasciare dal Tribunale o dal giudice di pace un decreto ingiuntivo. Sulla base poi del decreto ingiuntivo potrebbe agire con il pignoramento.

 

 

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Chiusura della società: che succede ai soci? PDF Stampa E-mail
Consulenza Aziendale
mercoledì 29 giugno 2016

Cancellazione ed estinzione della società: i debiti e i crediti vengono ereditati dai soci; la differenza tra società di persone e di capitali.

Che succede dopo la chiusura di una società? E, in particolare, cosa avviene dopo la cancellazione dal registro delle imprese se ancora (come spesso succede) ci sono debiti da pagare o (come più di rado accade) crediti da riscuotere? I chiarimenti sono stati ribaditi da una sentenza di ieri della Cassazione [1] che riprende il discorso avviato nel 2013 dalle Sezioni Unite [2].

Dalla cancellazione dal registro delle imprese deriva l’estinzione della società: essa, cioè, cessa di esistere o, per usare una parola semplice ma espressiva, “muore”. E ciò vale sia per le società di persone (S.a.s., S.n.c, società semplici) che per quelle di capitali (S.p.A., S.r.l., S.a.p.a.). Ma, come ogni volta che muore una persona, subentrano in tutti i suoi rapporti (crediti e debiti) gli eredi: eredi che, in questo caso sono i soci (siano essi persone fisiche o altre persone giuridiche). In buona sostanza i soci diventano titolari – entro i limiti che vedremo a breve – sia delle posizioni attive che di quelle passive ancora pendenti all’atto dell’estinzione della società.

Che succede ai debiti della società

Come anticipato, questo fenomeno di tipo successorio investe sia i crediti, sia i debiti. Il problema principale, per come immaginabile, si pone soprattutto per i debiti. In che modo, ed entro che limiti, i soci ne devono rispondere? Fino a dove possono spingersi i creditori della società nel pignorare i beni dei soci? La risposta è sintetica e facile:

·         Nelle società di persone, i creditori possono agire nei confronti degli ex soci illimitatamente, proprio come se fossero stati questi ultimi – e non la società – i veri debitori. Del resto, nelle società di persone (S.a.s., S.n.c., Società semplici), il creditore che non riesca a soddisfarsi sul patrimonio sociale può sempre pignorare i beni dei soci senza alcun limite. Dunque, la sostanza non cambia neanche dopo la morte della società;

·         Nelle società di capitali i creditori possono agire nei confronti degli ex soci, ma nei limiti di quanto da questi riscosso a seguito della liquidazione ossia di quanto percepito con l’ultimo bilancio. E, comunque, non oltre le rispettive quote sociali.

Che succede alle cause in corso?

Dal punto di vista processuale invece l’estinzione della società determina l’interruzione della causa pendente con facoltà per i soci di proseguire e riassumere detti giudizi a titolo personale. Analogamente nel caso in cui l’evento interruttivo si verifichi a grado concluso, l’impugnazione del provvedimento emesso dovrà invece provenire o essere indirizzata, a pena di inammissibilità, dai soci o nei confronti dei soci.

Se invece il grado di giudizio è concluso e sono pendenti i termini per l’impugnazione, l’estinzione comporta la facoltà per i soci “successori” – e solo per loro – di proporre il gravame o di essere destinatari dello stesso; il tutto a pena di inammissibilità dell’impugnazione.

 

 

[1] Cass. sent. n. 13290/16 del 28.06.2016.

[2] Cass. S.U. sent. n. 6070/2013 e 6071/2013.

 

 

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Cosa è la vendita con riserva di proprietà o vendita a rate? PDF Stampa E-mail
Consulenza Legale
martedì 28 giugno 2016

La vendita con riserva di proprietà è stata predisposta a tutela del venditore del bene, il quale mantiene la proprietà dello stesso fino al completo pagamento del prezzo.

 

Con esclusivo riferimento al contratto di compravendita merita un breve cenno il contratto di vendita a rate con riserva di proprietà (o anche detta vendita con patto di riservato dominio), più comunemente conosciuta come vendita a rate.

Le parti, secondo il dettato dell’art. 1523 c.c., possono infatti stabilire che il prezzo della vendita debba essere pagato in modo frazionato nel tempo (rate) e che la proprietà passi al compratore solo quando sarà pagata l’ultima rata del prezzo medesimo.

L’effetto reale della vendita – ossia il trasferimento della proprietà – viene in tal modo sottoposto alla condizione sospensiva del pagamento integrale del prezzo. In questo modo il venditore si garantisce dal rischio che l’acquirente – al quale ha accordato il beneficio del pagamento rateale – non paghi quanto convenuto: se, infatti, ciò dovesse avvenire, non essendosi ancora trasferita la proprietà dell’immobile in capo a quest’ultimo, il proprietario non sarà costretto ad agire in causa per ottenerne la restituzione.

Nonostante patto contrario, il mancato pagamento di una sola rata, che non superi l’ottava parte del prezzo, non dà luogo alla risoluzione del contratto (art. 1525 c.c.).

In pratica, attraverso la vendita a rate con riserva di proprietà il prezzo della vendita è versato frazionato nel tempo e la proprietà si trasferisce solo con il pagamento dell’ultima rata.

 

 

 

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