Home arrow Annunci
Annunci
Come fare il cambio destinazione d’uso locali PDF Stampa E-mail
Notizie flash
Scritto da Nicola Tartaglia   
mercoledì 15 giugno 2016


 

Variazione di uso di un immobile: quali sono le autorizzazioni, i permessi e la procedura da seguire per cambiare la destinazione d’uso di un appartamento, un magazzino, un ufficio, una cantina, ecc.?

 

Capita spesso di acquistare un immobile per una determinata funzione e poi avere necessità di cambiare la destinazione d’uso dello stesso, per sopravvenute esigenze. Tipico è il caso di un appartamento che diventi un ufficio o viceversa (anche ad uso promiscuo), o di un garage che diventi magazzino, di un negozio che diventi ufficio, ecc. Quali sono però le pratiche da seguire e le autorizzazioni da richiedere per effettuare un cambio di destinazione d’uso del locale?

Ecco questa sintetica scheda per le informazioni necessarie al proprietario di casa.

 

È necessario il permesso a costruire per il cambio di destinazione d’uso?

Se il cambio di destinazione d’uso viene realizzato senza opere evidenti all’interno dell’immobile, il proprietario non deve chiedere la concessione edilizia; l’importante, dunque, è che dietro al cambio di destinazione d’uso non realizzi un mutamento urbanistico-edilizio e non sconvolga l’assetto dell’area in cui è ricaduto l’intervento edilizio.

Spetta ad ogni singola Regione individuare quali ipotesi di mutamento di destinazione d’uso debbano essere assoggettate a permesso di costruire e quali a DIA (denuncia di inizio attività). Difatti, il testo unico sull’edilizia stabilisce che le “Regioni stabiliscono con legge quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell’uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a denuncia di nuova attività”.

Quindi è bene che il proprietario assuma le dovute informazioni circa la normativa vigente nel territorio ove l’immobile è situato.

Se invece, per poter svolgere delle nuove funzioni, è necessario compiere delle modifiche strutturali o distributive, bisognerà richiedere un Permesso di Costruire

 

La verifica del Piano regolatore

La prima verifica da effettuare prima di avviare le pratiche di variazione di destinazione d’uso dei locali, è quella di controllare che il cosiddetto PRG, ossia il locale Piano Regolatore non ponga limiti di sorta. Il PRG deve consentire il cambio di destinazione nella zona oggetto dell’intervento. A tal fine è bene recarsi presso il Comune per disporre delle necessarie informazioni. Se il Comune non dispone di un Piano Regolatore o se quest’ultimo è stato di recente modificato ci si può recare all’ufficio del Catasto.

Ottenuta l’autorizzazione, la procedura si diversifica a seconda che il cambio di destinazione d’uso preveda la realizzazione di opere o meno all’interno dell’immobile.

Vediamo singolarmente le due ipotesi.

 

Se, con il cambio di destinazione, si realizzano mutamenti strutturali

Se insieme al cambio di destinazione d’uso vengono realizzate delle opere che possano comportare mutamenti strutturali dell’immobile, è necessario ottenere il permesso di costruire ovvero la Super Dia.

 

La SCIA per la variazione d’uso

Qualora, invece, il cambio d’uso del locale non comporti l’esecuzione di opere, è sufficiente presentare in Comune una S.C.I.A. (Segnalazione Certificata di Inizio Attività), che deve essere firmata da un tecnico abilitato. Essa va depositata presso l’ufficio del Servizio Urbanistica tramite lo Sportello Unico per l’Edilizia.

In tal caso il cambio di destinazione può avvenire immediatamente.

 

Il regolamento di condominio

Alcuni regolamenti di condominio possono contenere clausole che vietino la modifica della destinazione d’uso di un immobile. Tali clausole sono valide solo se si tratta di regolamento contrattuale ossia approvato con l’unanimità dei condomini (tipico è il regolamento approvato da ogni singolo proprietario all’atto dell’acquisto dell’immobile dalla ditta costruttrice). Il regolamento approvato a maggioranza, anche qualificata, non può contenere restrizioni all’uso dei singoli locali.

Se il regolamento contrattuale contiene limitazioni alla modifica della destinazione d’uso, non è sufficiente che la strumentazione urbanistica consenta questo tipo di intervento, ma andrà preventivamente richiesto il parere dell’assemblea condominiale.

Si ritiene che il Comune non possa subordinare il rilascio della concessione edilizia alla verifica della volontà degli altri condomini: una cosa è infatti il rispetto della normativa urbanistica e un’altra della normativa condominiale.

 

Quale ufficio rilascia il cambio di destinazione d’uso?

Dopo aver eseguito le istruzioni appena illustrate, il proprietario dovrà presentarsi all’ex ufficio del Territorio, attualmente istituito presso l’Agenzia delle Entrate per il rilascio del cambio di destinazione.

Con la modifica della categoria edilizia varierà anche la rendita catastale necessaria su cui calcolare le imposte (Imu, Tari, Tasi, ecc.).

Infine bisognerà chiedere al Comune il certificato di agibilità, fornendo la specifica documentazione che attesti ogni procedura eseguita in precedenza, compresa l’eventuale Certificazione Energetica ottenuta.

 

Quali costi e spese vanno sostenuti per il cambio di destinazione d’uso?

I costi che deve sostenere il proprietario per procedere al cambio di destinazione d’uso di un locale sono:

·         le spese necessarie per i lavori materiali all’interno dell’immobile, necessari quando si procede anche ad interventi edilizi;

·         gli onorari del professionista; essi possono variare a seconda che servano solo le pratiche urbanistiche o catastali o che si debba anche seguire la reale esecuzione dei lavori (la direzione lavori);

·         il pagamento degli oneri di urbanizzazione (spesa legata al maggior carico urbanistico determinato dalla nuova costruzione). Se il mutamento non comporta alcun incremento del carico urbanistico, il pagamento dei relativi oneri non è dovuto.

 

 

 

RICHIEDI CONSULENZA SU QUESTO ARGOMENTO

 

 
Quanto contante si può versare in banca dopo il 2016 PDF Stampa E-mail
Notizie flash
Scritto da Nicola Tartaglia   
mercoledì 01 giugno 2016

Ho accumulato dei risparmi ed altri soldi mi sono stati regalati cosicché ora ho oltre 3.500 euro in contanti: li posso versare sul conto in un’unica volta o è meglio farlo in due soluzioni?

 

Ogni correntista è libero di depositare qualsiasi importo di denaro sul proprio conto corrente, sia esso postale o bancario; la stessa libertà riguarda anche i prelievi. Non vi sono limiti, quindi, all’utilizzo dei contanti, per cui, in tal caso, si potrà versare anche una somma superiore a tremila euro. Ecco perché.

 

A partire dal 1° gennaio 2016, la legge [1] ha innalzato da 1.000 a 3.000 euro la soglia oltre la quale è vietato il trasferimento di denaro contante (e così anche per quanto riguarda il trasferimento di libretti di deposito bancari o postali al portatore o di titoli al portatore). Condizione, però, perché si possa parlare di trasferimento di contanti e che quindi scatti l’obbligo di utilizzo di strumenti tracciabili oltre i 3.000 euro, è che il denaro passi dalla mano di un soggetto a quella di un altro; insomma, il trasferimento deve riguardare soggetti diversi (anche se uno dei due è una pubblica amministrazione). Solo in questi casi, dunque, c’è l’obbligo di utilizzare, oltre 3.000 euro, strumenti come il bonifico bancario, l’assegno non trasferibile, le carte di credito o di debito.

 

Invece, il versamento – così come il prelievo – dal conto corrente (bancario o postale) non comporta il trasferimento di denaro tra due soggetti poiché i soldi, in questo caso, rimangono sempre nella titolarità del correntista e non vengono invece trasferiti in favore di altri. Alla banca, infatti, non viene trasferita la proprietà del denaro ma solo la custodia.

 

Dunque, il versamento di una somma di denaro sul conto corrente postale o bancario può essere fatto in un’unica soluzione anche se superiore a 3.000 euro senza incorrere nell’irrogazione delle sanzioni previste dalle disposizioni in materia di antiriciclaggio e tracciabilità.

 

Leggi anche “Quanto contante si può prelevare in banca dopo il 2016“.

 

[1] Art. 1, co. 898, Legge di Stabilità 2016 (L. 208/2015) che ha modificato l’art. 49 co. 1, d.lgs. n. 231/2007.

 
Strisce blu: per chiedere il pagamento i Comuni devono far causa PDF Stampa E-mail
Notizie flash
Scritto da Nicola Tartaglia   
mercoledì 01 giugno 2016

Il vigile non può più elevare le multe per superamento dell’orario coperto dal ticket pagato sulle aree di sosta a pagamento (strisce blu): il Comune dovrà quindi attivare gli strumenti civilistici del recupero crediti, ma il decreto ingiuntivo è una via poco praticabile.

 

Per quanto paradossale possa essere, il Comune che voglia recuperare i 41 euro per la sosta dell’auto sugli spazi a pagamento, contrassegnati dalle strisce blu, dovrà fare una causa ordinaria (con tutti i costi e i tempi che essa impone), ma non potrà mai elevare una multa; multa che, diversamente, sarebbe di certo nulla. È questa la conseguenza del mancato adeguamento di gran parte delle amministrazioni locali alla nota del Ministero dei Trasporti del 12 maggio 2015. Ma procediamo con ordine.

 

Non esiste alcuna norma, all’interno del codice della strada, che sanzioni il comportamento dell’automobilista il quale, dopo aver regolarizzato il ticket per la sosta sulle strisce blu, alla scadenza del tempo coperto dal pagamento non lo rinnovi e che, quindi, rimuova il mezzo ben oltre l’orario indicato sul ticket stesso. Tanto per fare un esempio, se Tizio paga un ticket per 10 minuti e poi torna dopo 10 ore, per la sua omissione non esiste una legge che lo punisca con una sanzione amministrativa. Come ha ammesso, infatti, lo stesso Ministero dei Trasporti l’anno scorso, si tratta di una vera e propria lacuna normativa.

 

Alla prevedibile protesta dei Comuni che, in tal modo, si sono visti privati di una consistente entrata, il Ministro ha fornito l’unica soluzione possibile. Due sono le vie che le amministrazioni possono intraprendere:

 

·         o i Comuni dovranno approvare un regolamento locale che disciplini le modalità di utilizzo delle aree di sosta a pagamento (in tal modo, infatti, la norma comunale colmerebbe la lacuna di quella statale, costituendo così fondamento giuridico per la validità della multa);

·         oppure i Comuni sono obbligati a riscuotere le somme dovute dagli automobilisti non già con il procedimento amministrativo (appunto le sanzioni per violazione del codice della strada), ma con quello civilistico tipicamente previsto per il recupero dei crediti.

 

Poiché però sono pochissimi i Comuni ad aver emanato il necessario regolamento locale, le multe continuano ad essere nulle. L’unico modo che l’amministrazione locale ha per recuperare il credito è quello del procedimento civile ordinario. Ma qui sta il punto.

 

Il codice di procedura civile prevede uno strumento più rapido per il recupero dei crediti che è il decreto ingiuntivo. Esso però richiede una prova scritta dell’inadempimento da parte del debitore, prova che, nel caso delle contravvenzioni, potrebbe tutt’al più essere la dichiarazione scritta fatta dal vigile che ha constato la violazione e il superamento dell’orario di sosta. Senonché, le multe sulle strisce blu vengono demandate non già ai comuni poliziotti, ma agli ausiliari del traffico i quali, invece, per pacifica giurisprudenza, non sono pubblici ufficiali. Essi, quindi, non hanno il potere di certificare la violazione dell’automobilista. L’eventuale dichiarazione scritta dell’ausiliare, quindi, non potrebbe essere utilizzata per la richiesta del decreto ingiuntivo.

 

Risultato: al Comune non resta che attivare una normale causa civile, con tutti i costi che essa comporta e i tempi estremamente dilatati, posta la necessità del rispetto dei termini processuali previsti dal codice di procedura. È chiaro che un procedimento del genere potrebbe risultare del tutto antieconomico anche se gestito in via massiva contro centinaia di violazioni.

 

Insomma, a quanto sembra i Comuni hanno le mani legate. E se non interverranno con una regolamentazione interna, gli automobilisti potranno continuare a utilizzare le strisce blu pagando il minimo indispensabile (quello, cioè, per il primo ticket).

 (Fonte La Legge per Tutti)

 
Quanto contante si può versare in banca dopo il 2016 PDF Stampa E-mail
Notizie flash
Scritto da Nicola Tartaglia   
lunedì 16 maggio 2016

Ho accumulato dei risparmi ed altri soldi mi sono stati regalati cosicché ora ho oltre 3.500 euro in contanti: li posso versare sul conto in un’unica volta o è meglio farlo in due soluzioni?

 

Ogni correntista è libero di depositare qualsiasi importo di denaro sul proprio conto corrente, sia esso postale o bancario; la stessa libertà riguarda anche i prelievi. Non vi sono limiti, quindi, all’utilizzo dei contanti, per cui, in tal caso, si potrà versare anche una somma superiore a tremila euro. Ecco perché.

 

A partire dal 1° gennaio 2016, la legge [1] ha innalzato da 1.000 a 3.000 euro la soglia oltre la quale è vietato il trasferimento di denaro contante (e così anche per quanto riguarda il trasferimento di libretti di deposito bancari o postali al portatore o di titoli al portatore). Condizione, però, perché si possa parlare di trasferimento di contanti e che quindi scatti l’obbligo di utilizzo di strumenti tracciabili oltre i 3.000 euro, è che il denaro passi dalla mano di un soggetto a quella di un altro; insomma, il trasferimento deve riguardare soggetti diversi (anche se uno dei due è una pubblica amministrazione). Solo in questi casi, dunque, c’è l’obbligo di utilizzare, oltre 3.000 euro, strumenti come il bonifico bancario, l’assegno non trasferibile, le carte di credito o di debito.

 

Invece, il versamento – così come il prelievo – dal conto corrente (bancario o postale) non comporta il trasferimento di denaro tra due soggetti poiché i soldi, in questo caso, rimangono sempre nella titolarità del correntista e non vengono invece trasferiti in favore di altri. Alla banca, infatti, non viene trasferita la proprietà del denaro ma solo la custodia.

 

Dunque, il versamento di una somma di denaro sul conto corrente postale o bancario può essere fatto in un’unica soluzione anche se superiore a 3.000 euro senza incorrere nell’irrogazione delle sanzioni previste dalle disposizioni in materia di antiriciclaggio e tracciabilità.

 

[1] Art. 1, co. 898, Legge di Stabilità 2016 (L. 208/2015) che ha modificato l’art. 49 co. 1, d.lgs. n. 231/2007.

 
Quanto contante si può prelevare in banca dopo il 2016 PDF Stampa E-mail
Notizie flash
Scritto da Nicola Tartaglia   
lunedì 16 maggio 2016

Voglio prelevare oltre 3000 euro dal conto corrente ma il dipendente della banca mi ha detto che è meglio farlo in due soluzioni, altrimenti verrò segnalato per violazione della legge sull’antiriciclaggio: è vero?

 

Anche dopo la modifica del limite di utilizzo del denaro contante, che dal 1° gennaio 2016 non è più mille euro ma tremila, non ci sono limiti (così come mai ci sono stati) al prelievo di soldi in contanti dal conto corrente bancario o postale; sia che ciò avvenga allo sportello che dal bancomat (salvo, ovviamente, in quest’ultimo caso, il limite giornaliero al prelievo che la carta consente solo per ragioni di sicurezza, onde preservare il correntista in caso di furto della carta stessa).

 

Così, in teoria, il proprietario del conto corrente o il suo delegato alla firma potrebbe prelevare dal conto anche un importo superiore a 3.000 euro senza incorrere nella violazione della normativa sulla tracciabilità. Questo perché i limiti all’uso del contante sono posti dalla legge esclusivamente in caso di trasferimenti del denaro tra soggetti diversi (a qualsiasi titolo essi siano: donazioni, vendite, mutuo, ecc.). Invece, nel caso di versamenti e prelievi sul o dal conto corrente, il denaro resta nella titolarità del medesimo soggetto, il correntista. All’atto del versamento del denaro sul conto, infatti, il correntista non trasferisce alla banca o alla posta la proprietà delle somme, ma solo l’obbligo di custodia.

 

Come dicevamo, a partire dal 1° gennaio 2016, e per effetto della Legge di Stabilità 2016 [1], il limite all’utilizzo dei contanti è salito da mille a tremila euro. Ma questo non toglie che si possa prelevare dal conto una somma anche superiore a tale tetto.

 

Leggi anche: “Quanto contante si può versare in banca

 

Anche l’Associazione Bancaria Italiana ha osservato come il presupposto necessario affinché trovino applicazione le limitazioni all’uso dei soldi in contanti sia rappresentato dal trasferimento di denaro contante stesso. Tale presupposto, invece, non si realizza per effetto delle operazioni di versamento e di prelievo allo sportello o al bancomat.

La soluzione fornita dall’Abi è stata poi ulteriormente confermata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze con una circolare del 2012 [2].

 

È quindi possibile prelevare allo sportello somme in contanti oltre la soglia dei 3.000 euro, in quanto con l’operazione non risulta effettuato alcun trasferimento di denaro in favore di un soggetto diverso.

Come detto, infatti, il presupposto della violazione è rappresentato dal trasferimento di denaro (oltre soglia) tra due soggetti diversi. A seguito dell’operazione di prelievo, invece, il soggetto interessato continua a mantenere la disponibilità della somma di denaro che, anteriormente all’operazione, era depositata sul conto corrente a lui intestato.

 

La conseguenza è che nessun impiegato di banca potrà mai impedire al cliente un prelievo di denaro per importi oltre il limite della tracciabilità. La filiale dell’istituto di credito, tuttavia, potrebbe valutare se sussistano i presupposti per effettuare la segnalazione di “operazione sospetta” al vertice della banca; quest’ultimo, qualora lo ritenga opportuno, potrebbe interessare la UIF, l’Unità di Informazione Finanziaria che, a sua volta, se vi è sospetto di reato, ne darà comunicazione alla Procura della Repubblica.

In ogni caso, il consiglio è sempre quello di mantenere un registro sull’uso delle somme prelevate, quando di consistente importo, perché resta sempre la possibilità per l’Agenzia delle Entrate di inviare richieste di chiarimenti, anche dopo alcuni anni, nel caso in cui vi sia il sospetto di utilizzo del denaro per scopi di investimento e, quindi, come fonte di reddito non dichiarato.

 

[1] Art. 1, co. 898, Legge di Stabilità 2016 (L. 208/2015) che ha modificato l’art. 49 co. 1, d.lgs. n. 231/2007.

[2] Min. Econ. circolare n. 2 del 16.01.2012.

 
<< Inizio < Prec. 1 2 Pross. > Fine >>

Risultati 1 - 9 di 11